giovedì 31 agosto 2023

Vertigo (prospettive titaniche nei romanzi di E.Zola)

 Vertigo (Prospettive titaniche nei romanzi di E.Zola)

Uno dei caratteri peculiari e ricorrenti, in quasi tutti i romanzi di Zola, sono ampie scene che tendono ad una dilatazione estrema della prospettiva, ad un rafforzamento verso dimensioni di una tale grandezza da creare, nel lettore, un senso di smarrimento, una vertigine che nasce dal sentirsi avvolto da un turbine, da una spirale che pare infinita e che mira a raggiungere estensioni o profondità o confini veramente inattesi e travolgenti. Questa grandiosità riguarda spesso contesti quotidiani, persino umili: e ciò desta stupore. Voglio citare qui la famosissima scena della lavanderia, che si svolge quasi all'inizio dell' Assommoir, dove il macchinario a vapore utilizzato per riscaldare l'acqua (ogni secchio di acqua calda aveva un costo, come il sapone, l'acqua clorata, etc.) è una presenza gigantesca, ribollente, minacciosa, incombente accanto alle donne intente a lavare i panni. Qui, come altrove, la grandezza va di pari passo con l'ammirazione dell'autore verso modernità di certe soluzioni, molto parigine e molto pratiche, per rendere piu' agevole il bucato. E tuttavia, la fiducia nel futuro e nella tecnica non è immune da un sentimento contraddittorio, che deriva dall'apparente mancanza di confini e dai pericoli insiti nel progresso: le invenzioni, le macchine, le innovazioni prendono il sopravvento sugli uomini, diventano incontrollabili, sembrano dotate di vita propria.

Immensa è la prospettiva del grande magazzino denominato il Paradiso delle signore, che va estendendosi in modo tale da strozzare il piccolo commercio anche attraverso l'ampliamento fisico dell'edificio: per offrire nuovi spazi sempre più ampi ai magazzini, vengono sacrificate le piccole case adiacenti, dove vi sono ancora le antiche botteghe tradizionali, ormai schiacciate, soffocate dalle moderne pareti in vetro e metallo del nuovo edificio. Quest'ultimo, che ingloba e fagocita tutto ciò che trova sul proprio cammino, riflette l'ambizione sfrenata, e anche la presunzione di Octave Mouret, il proprietario, giovane e con pochi scrupoli, sempre intento a progetti e innovazioni che gli garantiscano di accrescere rapidamente ed enormemente le entrate, dimostrando a tutti e a se stesso il proprio successo. Il grande magazzino Il Paradiso delle signore è una struttura fantascientifica per l'epoca; non tanto per i nuovi materiali che sostituiscono la pietra e i mattoni, ma anche per l'impressionante estensione e per l'insolita altezza. L'edificio diventa pertanto una sorta di mostro divoratore - come si diceva- di tutto ciò che lo circonda (case e terreni) in perfetta coerenza con la ciclopica e incontenibile speculazione edilizia di quegli anni (post 1870). I "grandi magazzini" erano già una realtà consolidata e frequentatissima dai parigini (Bon marche', Louvre, etc.) ma nel Paradiso troviamo molte sorprese, che stupiscono anche oggi: all'interno, il labirintico edificio racchiude una serie innumerevole di scale, ascensori (già!), stretti passaggi tra incombenti montagne di merci, magazzini sotterranei sterminati, strati e strati di tessuti sino a formare paurose colonne forse non troppo stabili, nonché lunghi ponti d'acciaio per collegare le diverse sezioni e per ammirare, dall'alto, quella sorta di panorama alienante, affollatissimo, ma anche affascinante, dove la gente brulica spintonandosi, entra "solo per dare un'occhiata", ma esce con una grande quantità di acquisti dettati dall'istinto o, secondo l'illusorio punto di vista di molte donne, dal sano intento di risparmiare. Memorabile la presenza di Mouret che osserva dall'alto di un ponte metallico, che collega due enormi reparti, il via vai delle donne: da una prospettiva di potenza, una figura titanica e dominate su tutto e tutti.

sabato 12 agosto 2023

 A mia madre

Mamma che non ci sei piu',da oltre trent'anni che sono volati, che sono ricordi perduti - ma non per me- mamma capisco tutti i tuoi passi
Comprendo difficoltà inesprimibili.
Comprendo la bellezza
del sogno.
Comprendo un linguaggio segreto,
Nostro, che non c'è piu'.
Eppure riappare, e aleggia in confini,
Segreti. I nostri segreti,
Decenni, vicine e nella speranza di sempre,
Che non ci lasciano piu'.
Io e te
Queste parole chissà
Le avresti approvate?
Non so. Mamma così perfetta,
Mamma non so che dirti...
Non so se qualcuno mai
Potra' comprendere.
La sofferenza è calda, è comune, è attesa.
Chi può comprendere? Qualcuno
Ha in comune - con me- ricordi antichi,
che parlano di attesa inconsistente....
E antiche memorie,
E canzoni, oh! Così antiche
Che non vale la pena conoscere,
Interpretare.
Non c'è alcun merito nel ricordare
Quello che non interessa a nessuno.
Hanno già parlato i poeti
di collanine, corallini e piccole, piccole cose...
Non vale la pena parlarne.
Anche la mia mamma amava le collanine, ma...
Ci siamo capiti. È un altro mondo, caro Caproni.
La mia mamma...altra cosa, la sua storia
Troppo lontana anche da te e dai tuoi tempi.
(Anche se le piacevano le collanine...)
La mia mamma era un altro mondo.
Mamma, abbiamo una cosa, che nessuno
Può delegare o affidare ai limiti dell'incomprensibilità.
Abbiamo il nostro linguaggio, i nostri
Segreti, e canzoni segrete, parole
Che non si usano piu'.
Dove sei, mamma, vieni, ti prego.
Le mie ragioni, le mie contraddizioni
E quegli aspetti che non hanno risposta....
Aspetti? Specchi? Liturgie di antica memoria.
Mamma, aspettami. L'attesa è la felicità?

Tutte le reazio

Zola: aspetti tecnici dei romazi

 Zola: aspetti tecnici dei romanzi

Emile Zola ha scritto un'opera breve intitolata Il paradiso dei gatti, dove si narra di gatti parigini che decidono di fare da soli e rendersi indipendenti dagli uomini.
Zola ci dona interessanti ed esatte descrizioni di gatti (aspetto, comportamento, carattere) che fanno comprendere quanto li abbia osservati ed amati, se non addirittura studiati, data la precisione con la quale illustra i loro movimenti.
In merito allo spirito di osservazione di Zola, sia verso gli uomini che verso gli animali, ricordiamoci che ogni suo romanzo ha dietro di se' una lunga preparazione tecnica sulle attività e situazioni che vengono descritte. In pratica, leggendo Zola, imparerete a preparare alcuni piatti, a distinguere tipologie di tessuti, ad allestire una vetrina, conoscerete la tecnica degli operatori di Borsa, il mondo della speculazione edilizia, il funzionamento della locomotiva a vapore: vedrete, momento per momento, come si svolge il parto di una mucca e, naturalmente vi troverete a faccia a faccia con il mondo della prostituzione, delle osterie, dei sintomi da bevuta di assenzio. C'è davvero da stupirsi, di fronte alla particolareggiata descrizione dei sintomi che al travaglio e al parto. Vedrete quante tipologie di formaggi si vendevano alle Halles di Parigi, nonché le numerosissime varietà di mele, albicocche, susine e molti altri frutti che ancora esistevano a fine Ottocento e di cui oggi non vi è neppure - forse- che un pallido ricordo; non mancano i fiori con i loro profumi. Forse fremerete di sdegno (è auspicabile) inoltrandovi nelle miniere, con i loro complessi macchinari destinati a sfruttare quanto più possibile il lavoro umano, soprattutto minorile; vedrete come si organizza uno sciopero in cui i lavoratori dimostrano una determinazione che oggi non vediamo più neppure nei sogni più audaci. E poi le trame della politica e dei politici (il mondo non cambia, nella sua sostanza e tanto meno nel comportamento umano, con tutte le sue sfaccettature); intrecciata con gli interessi economici, la realtà della "giustizia" e dei processi.
Ci sono infine puntigliose descrizioni sulle modalità di morte dei soldati e degli animali che hanno - da sempre - avuto la sfortuna di essere i loro compagni di sventura.
Un ampio spazio è dato alla storia: storia che non annoia, in questo caso, neppure i lettori più recalcitranti, in quanto si intreccia con la vita privata dei personaggi; ma in questo caso Zola era all'interno della storia del proprio Paese: per lui, in fondo, era cronaca. Al complicato mondo degli artisti bohemien e delle loro relazioni, nonché al loro rapporto con la società si incentra L'oeuvre , come precisato in un articolo precedente.

Rue vieille du Temple: con piacere ho visto che esiste e che non dovrebbe aver subito grossi mutamenti dai tempi in cui Zola fa percorrere questa strada dal protagonista de "L'oeuvre", il giovane artista bohemien Claude Lantier. Pittore alla ricerca del successo attraverso la faticosa e lunghissima realizzazione dell'opera perfetta, porta con se' l'eredità caratteriale di genitori e avi; ciò gli determina momenti di rabbia violenta e plateale, seguiti da repentini mutamenti di umore. In lui si alternano ore di produzione senza sosta, a lunghi momenti in cui si sente un fallito, medita sull'impossibilità di dipingere l'opera straordinaria che occupa la sua mente. Sfoga il senso di frustrazione esternando il proprio sdegno nei confronti del mondo borghese: della morale, dei valori, delle idee e soprattutto dell'arte gradita alla buona borghesia parigina: arte addomesticata dal potere e ad esso asservita; arte innocente -troppo innocente- mansueta ed ubbidiente. È la produzione accademica: quella contro la quale Claude si scaglia furioso, ma è una lotta impari. Claude è portatore del nuovo, dell'anti-accademismo, dell'en plein air, di soggetti che faranno tremare le vene e i polsi a chi apprezzava la tradizione. Ed è proprio della tradizione che Claude si sbarazza, con le sue pennellate energiche e un po' folli, con la figura di donna, nuda su un prato, presso la quale siede (di spalle) un signore elegantemente vestito, con giacca di velluto nero. Vi viene in mente qualcosa, penso. Tornando agli aspetti patologici del personaggio, ricordiamoci che in lui la violenza è sempre sul punto di scoppiare, proprio come nel fratello Jacques (uno dei personaggi de La bestia umana) l'eredità familiare rischiava di esplodere nel momento in cui si creava una qualche intimità con l'altro sesso. E infatti, la furia (è lui la bestia umana?o è solo una delle bestie umane del romanzo?) infine divampa, come lui temeva. E anche ne "L'oeuvre" il retaggio malato dei Maquart non manca di mostrarsi, con modalità inattese.

Pascoli: L'aquilone, ovvero la fortuna di rimanere per sempre piccoli 

Meravigliosa poesia che leggiamo nei Primi Poemetti, L'aquilone  si soleva far studiare diligentemente a memoria; nonostante il mio disaccordo nei confronti dell'imposizione dello studio mnemonico dei testi poetici, devo riconoscere che molte persone della mia età, o anche più giovani o più grandi, si compiacciono molto nel ricordarla e nel recitare i primi versi. Io la propongo sotto un aspetto che mi interessa particolarmente: quello dei giochi. I bimbi, tra cui il nostro poeta, al risveglio nei giorni in cui non c'era lezione, potevano, liberamente, giocare; se faceva bello, si recavano nei prati circostanti, forse guidati da un maestro, forse non seguiti: la loro felicità si libera un po' selvaggia, tra siepi ancora rosseggianti di bacche (era ottobre, o comunque era autunno, e non faceva ancora freddo: solo un bel vento e il cielo turchino). Immaginiamo i bimbi che saltellano tra i fiori, portando un aquilone. Quando finalmente un soffio di vento sembra strappare da una piccola mano il filo, ecco un urlo di gioia; stenta un po' a innalzarsi, quel gioco di fragile carta colorata, ma poi si leva in alto. Il bimbo dell'aquilone non avrà fortuna, e la mammalo piangerà tanto, dopo averlo composto per l'ultima volta nel suo lettino ed aver pettinato piano, per non fargli male, i capelli biondi. Pascoli, adulto, ricordando il giorno libero e lieto dell'aquilone e il piccolo compagno di collegio, ritiene fortunata la morte, se in giovanissima età, quando ancora l'interesse è concentrato - in questo caso - sul balocco che si stringe al cuore, prezioso. 

Meglio venirci ansante, roseo, molle

di sudor, come dopo una gioconda

corsa di gara per salire un colle!

Meglio venirci con la testa bionda (...) 

senza aver visto cadere altro che gli aquiloni, piuttosto che dopo l'immersione nella sofferenza adulta, dopo aver visto non solo morire i propri cari, ma anche la progressiva caduta dell'umanità tutta nel male, osservata con dolore dallo stesso cielo, colorato di aquiloni in volo in quell'occasione, ma piangente lacrime di stelle - anch'esse un pulviscolo - di fronte alla cattiveria, alla violenza (vedi, ad esempio, X agosto, Il bolide, Il ciocco, etc.  Anche l'aquilone è una cometa, una stella cadente - in fondo - che non fa male.

L'inconsapevolezza è la condizione a cui vorrebbe abbandonarsi il poeta; quel pettine che la madre del piccolo morto passa delicatamente sui suoi capelli, Pascoli avrebbe voluto sentirlo su di sé fanciullo, tra le carezze della propria madre.

Infine, vorrei che notaste un'immagine di splendida, trasparente libertà: Urbino ventoso... 

ZOLA E L'ARTE 1. IL PITTORE CLAUDE LANTIER

 Zola e l'arte 1. Il pittore Claude Lantier

Rue Vieille du Temple: con piacere ho visto che esiste e che non dovrebbe aver subito grossi mutamenti dai tempi in cui Zola fa percorrere questa strada dal protagonista de L'oeuvre, il giovane artista bohemien Claude Lantier. Pittore alla ricerca del successo attraverso la faticosa e lunghissima realizzazione dell'opera perfetta, porta con se' l'eredità caratteriale di genitori e avi; ciò gli determina momenti di rabbia violenta e plateale, seguiti da repentini mutamenti di umore. In lui si alternano ore di produzione senza sosta, a lunghi momenti in cui si sente un fallito, medita sull'impossibilità di dipingere l'opera straordinaria che occupa la sua mente. Sfoga il senso di frustrazione esternando il proprio sdegno nei confronti del mondo borghese: della morale, dei valori, delle idee e soprattutto dell'arte gradita alla buona borghesia parigina: arte addomesticata dal potere e ad esso asservita; arte innocente -troppo innocente- mansueta ed ubbidiente. È la produzione accademica: quella contro la quale Claude si scaglia furioso, ma è una lotta impari. Claude è portatore del nuovo, dell'anti-accademismo, dell'en plein air, di soggetti che faranno tremare le vene e i polsi a chi era legato mani e piedi all'ormai superata tradizione, che non aveva più nulla da dire, soprattutto ai giovani artisti. Ed è proprio della tradizione che Claude si sbarazza, con le sue pennellate energiche e un po' folli, con la figura di donna, nuda su un prato, presso la quale siede (di spalle) un signore elegantemente vestito, con giacca di velluto nero. Vi viene in mente qualcosa, penso.

Tornando agli aspetti patologici del personaggio, ricordiamoci che in lui la violenza è sempre sul punto di scoppiare: proprio come nel fratello Jacques (uno dei personaggi de La bestia umana) l'eredità familiare rischiava di esplodere nel momento in cui si creava una qualche intimità con l'altro sesso. E infatti, la furia (è lui la bestia umana? o è solo una delle bestie umane del romanzo?) infine divampa, come lui temeva.
E anche ne L'oeuvre il retaggio malato dei Rougon-Maquart non manca di mostrarsi, con modalità inattese, e non solo verbali come ad esempio verso la povera e ingenua fanciulla trovata sotto la pioggia battente, una notte, presso il suo portone, o quando inveisce contro la borghesia.

TRENI 3.

 

Treni 3. La via ferrata nella campagna pascoliana

Quali emozioni avrà suscitato il passaggio del treno attraverso le campagne, nel nostro Pascoli? 

Proviamo a dedurlo da questa poesia, dove quella parola così pacata nel suono e nel ritmo, tranquillamente, avverbio riferito alle placide mucche pascolanti, contrasta con quel si difila , indicante lo scorrere luccicante al sole della via ferrata: una strada lunga, di cui non si vede nè indovina la fine e, quindi, come tutto ciò che appare illimitato, ha un'aura di mistero e, sotto alcuni aspetti, anche di minaccia (ne abbiamo parlato più volte). In alto, i  pali segnano con regolare ritmo il percorso della via ferrata; la loro trama non può che ricordarci quest'altro famoso verso tratto da Novembre:

di nere trame segnano il sereno

con gli stessi suoni allitteranti in "r". L'aura di mistero si fa più evidente nei gemiti e negli ululi del lamento che ricorda quello delle donne; e persino i fili di metallo, squillanti e vibranti nell'aria a quando a quando, evocano da vicino un altro suono, altrettanto sottile, metallico, misterioso: quello dei sistri d'argento echeggianti presso invisibili porte che forse non s'aprono più.


La via ferrata (da Myricae)

Tra gli argini su cui mucche tranquillamente

pascono, bruna si difila

la via ferrata che lontano brilla;

e nel cielo di perla dritti, uguali,

con loro trama delle aeree fila

digradano in fuggente ordine i pali.

Qual di gemiti e d’ululi rombando

cresce e dilegua femminil lamento?

I fili di metallo a quando a quando

squillano, immensa arpa sonora, al vento.

TRENI 2. Carducci e il treno-mostro



Treni 2. Carducci e l'empio mostro: un inconsueto addio

(su un mezzo all'avanguardia)

     In una mattina caliginosa, alla stazione di Bologna, Giosué Carducci accompagna con le proprie riflessioni la partenza della giovane amante-studentessa Lidia; la pioggia scroscia, scivola rumorosa dai cornicioni delle pensiline e dai finestrini del treno. Qualche sparuto albero, dai rami stillanti avvolti in una sorta di nebbia opaca, pare un fantasma, agli occhi del poeta. Senz'altro contrariato per quel viaggio, per l'allontanarsi della donna amata (la stessa a cui ha da poco donato un bel cavallo: regalo impegnativo e ingombrante, che creò qualche problema alla fanciulla) coglie una meravigliosa occasione per trasfigurare quel luogo, e soprattutto quel veicolo che rappresenta ancora una novità, in uno scenario dove ogni oggetto e ogni azione si rivestono di solennità epica.

Il treno in movimento è un inseguirsi di fanali, che sbadigliano la loro luce lattiginosa tra la cortina di pioggia e il fumo della locomotiva. La presenza di tante persone gli suscita non più che un filo di curiosità (dove andranno? quale dolore muove i loro passi?), subito spenta dall'apparire della ragazza. Costei si limita a porgere il biglietto al controllore, che dà un taglio netto, secco, che riapre al poeta la ferita del distacco, e il fluire di condivisi ricordi:                                                    

(...) Tu pur pensosa, Lidia, la tessera

al secco taglio dài de la guardia,

        e al tempo incalzante i begli anni

        dài, gl’istanti gioiti e i ricordi.(...)

Attorno a loro, tutto è oscuro e luttuoso: come le guardie stesse, lugubri comparse, quasi fantasmi con lampade dalla luce scialba, le mazze di ferro; come in un antro infernale, risuonano rumori metallici e cupi: lo stridio dei freni risuona come una campana a morto:

                       (...)   ed i ferrei20

        freni tentati rendono un lugubre

        rintócco lungo: di fondo a l’anima

un’eco di tedio risponde

doloroso, che spasimo pare.


E così pure gli schianti delle porte sbattute suonano oltraggiose al poeta, mentre il treno sembra prendere vita, risvegliandosi con grossolani movimenti di mostro:
 
Già il mostro, conscio di sua metallica

anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei

occhi sbarra (...)

Gli occhi del treno sono di brace: tutto converge, ora, su questa figura/immagine/creatura/golem, che         gli rapisce la donna, la cui presenza si perde in un saluto che si allontana: 

Va l’empio mostro; con traino orribile

        sbattendo l’ale gli amor miei portasi.

Ahi, la bianca faccia e ’l bel velo

        salutando scompar ne la tenebra.

Rimane solo il ricordo, fatto dei tratti gentili della fanciulla: colori rosei, trasparenti e giovani         come il sole di giugno, quando gli di lei occhi gli arrisero. Tristemente, il poeta ritorna sui suoi passi: si sente barcollare, come fosse ebbro, come se tutto sfumasse in una caligine, in un oblio che vorrebbe eterno, un oblio che potesse sopire i suoi sensi - lui dice - per sempre:

(...) io voglio io voglio adagiarmi
        
in un tedio che duri infinito.

Ma è solo un momento: noi sappiamo che l'energico, vitale Carducci è uno spirito indomito, a cui il tedio, soprattutto se infinito, non si addice per nulla!








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sabato 5 agosto 2023

PASCOLI IN CUCINA 4. La polenta con verdure saltate

 La polenta con le verdure saltate

Siamo sempre a casa della giovane Rosa dai capelli d'oro, la protagonista di tanta parte dei Primi Poemetti del nostro Pascoli: è l'epos delle campagne, e l'operosa fanciulla, dalle bianche braccia come un'antica dea (l'omerico aggettivo Leukòlenos) inizia all'alba la sua giornata operosa, aprendo le imposte tra il garrire della cappellaccia e le nuvole a bioccoli di lana. E mentre i bioccoli si indorano al levar del sole, Rosa passa la granata, sistema le stoviglie che sembrano rissare nel silenzio mattutino, e poi siede al telaio, finché la mamma non le chiede di setacciare la farina. La mamma vuole infatti preparare, per il ritorno del papà all'ora dell'Avemaria, la polenta con alcune erbe:

E seguitava: io voglio accomodare,

se mi riesce, questi due radicchi,

ch'ho già intoccati, con altr'erbe amare.

E tu, mentr'io soffriggo uno o due spicchi 

d'aglio trito, costì su la brunice,

fa' la polenta, buona anco pei ricchi ,


quando s'ha un bocconcino che ci dice.


Ed ecco la preparazione della polenta, solenne in ogni suo momento, come un antico rito; innanzitutto, necessita di un fuoco vivo, perciò si dovrà aggiungere legna, quindi 

                                          (...) il sale 

gettò nell'acqua che fremé ronzando. 

poi, con lo staccio alato, che frulla tra le mani di Rosa, si sparge poca farina gialla com'oro, quel tanto che basta per formare una fina tela; quindi, se ne versa un'altra brancatina. Infine, la cottura: 

[Rosa]inginocchiata al calor del fuoco, 

mestò, rumò, poi schiaffeggiò il pastone,

finché fu cotto; e lo staccò bel bello,

l'ammucchiò nel paiolo, col cannone

di pioppo; e lo sbacchiò sopra il tarvello.


La madre, intanto, prepara le verdure: versa nella teglia un filo d'olio, uno spicchio d'aglio sminuzzato, pone la teglia sulla brace, e poco dopo l'olio cantò con murmure sommesso, l'odore si spande e, venuto il momento, le verdure fumanti vengono condite. Le fette di polenta, poste in un canovaccio di lino bianco e spesso che viene annodato per le cocche, sono portate da Rosa e dalla sorellina Viola al papà e ai fratelli, intenti al lavoro dei campi.

venerdì 4 agosto 2023

La locomotiva di Guccini e La bestia umana di Zola

 



Oggi, un incontro abbastanza insolito: Francesco Guccini ed Emile Zola. Tutti conosciamo La locomotiva, immortale brano del cantautore romagnolo, dove una locomotiva a vapore, come una cosa viva,  viene lanciata a bomba contro l'ingiustizia: il macchinista vuole riscattare le tante generazioni senza nome sfruttate dai ricchi, e per questo, vincendo esitazioni e paure, dirige il suo mostro contro un treno pieno di signori, che all'urto mortale sarebbe dovuto deflagrare. Ebbene, nel romanzo di Zola  La bestia umana vi è una scena, che corrisponde alla conclusione, dove una locomotiva a vapore, alla testa di un lunghissimo treno, corre senza freni e senza controllo: una vera bomba destinata a seminare morte. Jaques Lantier è il macchinista, e la locomotiva porta 18 carri-bestiame pieni all'inverosimile di soldati diretti al fronte; siamo infatti agli inizi della guerra franco-prussiana. Ma durante il viaggio, Jaques deve far fronte all'ostilità del fuochista, che ha scoperto una tresca tra il collega e la sua donna. Tra i due si scatena una rissa, che culmina con la morte di entrambi: nella lotta, i due cadono avvinghiati giù dal treno, e il risucchio li getta sotto le ruote, dove vengono fatti a pezzi. E il treno, ormai privo di controllo,  prosegue la sua corsa folle, a velocità estrema. La velocità è paurosa: i soldati, ignari di quanto sta accadendo, la percepiscono ma se ne rallegrano e cantano ancora più forte, sotto l'effetto dell'acquavite. Il treno, ormai un vero e proprio mostro dotato di vita propria, divora i chilometri superando tunnel e stazioni; fantasma sfrenato nelle tenebre, non tiene conto di segnali e ostacoli, corre sempre più lontano, sempre lanciato da una forza cieca, da una forza morta, e la locomotiva  correva verso la morte, carica di carne da cannone: di quei soldati, abbrutiti dalla stanchezza, e ubriachi, che continuavano a cantare. 

PASCOLI IN CUCINA 3.

 Pascoli in cucina 3.


 nei Nuovi Poemetti, nella sezione La mietitura, Pascoli ci racconta il lavoro dei contadini, protagonisti e artefici della storia del pane: si parte dal grano, che strepita al vento, con attorno qualche fior rosso, qualche fior celeste, alla mietitura (con molti elementi tratti dalla cultura e dalla sapienza contadina:  espressioni proverbiali, vocaboli specifici di quel mondo e di quel luogo). Gli uccelletti, i figli della lodola, sono in pericolo, nel momento in cui passa la falce: la madre li istruisce (Fermi! Non mostratevi, non fate rumore...la natura vi ha fatti color terra per meglio nascondervi dai predatori). Alla fine, il pane:

Vuo’ lo staccio fino.
Prepareremo il lievito, ch’è quello
25che il nonno in casa ritrovò bambino.

Sia buono il pane, ma non sia men bello:
meglio che il brutto pan di fiore approvo
28un bel colombo fatto di cruschello.

Sia ben levato e pieno come un ovo,
e col suo sale; buono anche da solo.
31Sia questo primo pane di gran nuovo

per te, mia figlia, che mi prendi il volo.


Non ci sfugga l'allusione al cosiddetto lievito madre, che si trasmette da una generazione all'altra, e l'attenzione all'aspetto stesso del pane, pieno, tondeggiante e ben lievitato. E' il pane di Rosa, la ragazza prossima a sposarsi, ossia a prendere il volo. Riguardo questo personaggio, i preparativi per le nozze - in pratica le sue attività di tessitrice, contadina e allevatrice di bachi da seta - sono soffusi di un senso solenne di attesa timorosa, che investe tutta la famiglia, ma in particolare la madre e la sorellina Viola.  La prima notte della sposa emerge a piccoli tratti allusivi attraverso l'immaginazione della sorellina che, ormai sola nel letto troppo grande, è preoccupata, anzi, è atterrita pensando a che cosa verrà fatto alla sua Rosa, andata verso chissà quale martirio, ora sola con lui... Così, Viola trema e si stringe al petto la camicia da notte, pensando alla piaga mortale che segnerà le sue carni bianche, di velluto...


Per quanto riguarda La piada, estrapolo unicamente i versi che si riferiscono a questo alimento. Maria è, naturalmente, la sorella del poeta, il quale collabora girando sul fuoco il disco di pasta: 

pian piano appoggio su due mattoni il nero testo di porosa argilla.
Maria, nel fiore infondi l'acqua e poni il sale (...)

Ma tu, Maria, con le tue mani blande domi la pasta e poi l'allarghi e spiani;
ed ecco è liscia come un foglio, e grande come la luna;
e sulle aperte mani tu me l'arrechi,
e me l'adagi molle sul testo caldo, e quindi t'allontani.
Io, la giro, e le attizzo con le molle il fuoco sotto,
fin che stride invasa dal calor mite, e si rigonfia in bolle:
e l'odore del pane empie la casa.

E nell'ultima strofa, la piadina diviene il pane azzimo che si accompagna con erbe amare: il pane della Pasqua. 
Azimo santo e povero dei mesti agricoltori,
il pane del passaggio tu sei, che s'accompagna all'erbe agresti;

N.B.: La piada e lo staccio si inseriscono in una complessa rete di simboli ed elementi-chiave: il casolare squassato dal vento, i morti, la compassione e la solidarietà, la sacralità del pane e del lavoro umano.

PASCOLI IN CUCINA 2. IL RISOTTO

 PASCOLI IN CUCINA 2

Ricetta in terzine con cui il Poeta ci presenta il procedimento per il risotto romagnolesco, secondo il metodo della sorella Mariù; è stata composta nel 1905, in risposta alla ricetta del risotto alla milanese inviatagli dall'amico Augusto Guido Bianchi. 
Ecco la ricetta pascoliana:

Amico, ho letto il tuo risotto in …ai! 
E’ buono assai, soltanto un po’ futuro, 
con quei tuoi “tu farai, vorrai, saprai”!
Questo, del mio paese, è più sicuro 
perché presente. Ella ha tritato un poco 
di cipolline in un tegame puro.
V’ha messo il burro del color di croco 
e zafferano (è di Milano!): a lungo 
quindi ha lasciato il suo cibrèo sul fuoco.
Tu mi dirai:”Burro e cipolle?”. Aggiungo 
che v’era ancora qualche fegatino
di pollo, qualche buzzo, qualche fungo.
Che buon odor veniva dal camino! 
Io già sentiva un poco di ristoro, 
dopo il mio greco, dopo il mio latino!
Poi v’ha spremuto qualche pomodoro; 
ha lasciato covare chiotto chiotto 
in fin c’ha preso un chiaro color d’oro.
Soltanto allora ella v’ha dentro cotto 
Il riso crudo, come dici tu. 
Già suona mezzogiorno…ecco il risotto 
romagnolesco che mi fa Mariù.
Pascoli sembra sorridere di fronte al futuro, ma anche all'infinito con funzione di imperativo,  utilizzato dall'amico nella ricetta da lui presentata al poeta, tempo che suona ironicamente solenne e distaccato in un contesto scherzoso, ma che in passato si trovava di frequente nei ricettari, come nelle leggi dell'antica Roma.
Il poeta è felice di ristorarsi con un manicaretto domenicale, dopo le fatiche profuse nel comporre in greco e latino (quelle composizioni che gli varranno ben 12 riconoscimenti negli annuali agoni poetici in lingua latina tenuti ad Amsterdam).
Non manca la duttilità linguistica pascoliana che spesso risiede nei tecnicismi, o nel trascorrere da vocaboli della quotidianità (fegatino...buzzo...fungo, etc.), ad altri che, all'opposto, suonano arcaici e peregrini, come nel caso della parola cibreo, che indica un intingolo di antiche origini fiorentine, preparato con ingredienti semplici o addirittura poveri ma molto nutrienti, e molto apprezzato dall'intenditrice  Maria De Medici.
Infine, quel metaforico covare dell'intingolo che sobbolle chiotto chiotto nel tegame di terracotta, ricorda un nugolo di uccellini che dormono quieti nel loro nido, con le alucce abbassate, ma è anche un riferimento alla cucina calda e raccolta, in cui il poeta e la sorella - la famiglia ricostruita nella casetta di Castelvecchio -  si riuniscono attorno al desco domenicale.

Insieme all'amico Bianchi, Pascoli aveva gustato il riso alla milanese, con lo zafferano; ed ecco la ricetta inviata da Bianchi, che si cimentò nella poesia:

Occorre di carbone un vivo fuoco;

la casseruola; cento grammi buoni

di burro e di cipolla qualche poco.

Quando il burro rosseggia, allor vi poni

il riso crudo; quanto ne vorrei

e mentre tosta l’aglio e scomponi.

Del brodo occorre poi: ma caldo assai;

messine un po’ per volta, che bollire deve continuo, né asciugarsi mai.

Nel tutto, sulla fine, diluire

di zafferano un poco tu farai

perché in giallo lo abbia a colorire.

Il brodo tu graduare ben saprai, perché denso sia il riso, allor che è cotto.

Di grattugiato ce ne vuole assai.

Così avrai di Milan pronto il risotto.

N.B.  Sembra superfluo aggiungere che Augusto Guido Bianchi non era né un gastronomo né un poeta, ma si occupava, in quanto giornalista e studioso, di casi giudiziari e della criminalità legata alle malattie mentali: si rifaceva a Lombroso, ed esaminò vari casi. Si occupò anche della disastrosa situazione dei manicomi italiani, deplorando l'affollamento che impediva, insieme ad altre cause, di esperire tentativi per la cura dei malati, che venivano abbandonati a se stessi o sottoposti a violenze. Visse tra il 18767 e il 1951: una lunga vita che gli permise di seguire passo passo l'evolversi degli studi sulla psichiatria.

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