martedì 25 luglio 2023

GIOVANNI PASCOLI IN CUCINA  



Una bella occasione per una bella lezione perfetta per l'Alberghiero; Pascoli in cucina, che lo trasforma, da poeta spesso un po' arduo per gli studenti, in una sorta di amico, che lo trasferisce  in una dimensione quotidiana.

Prendiamo La canzone del girarrosto 

Domenica: il giorno che al mattino sorride, e sospira al tramonto. E tutti ne conosciamo il motivo. Nei tempi andati, era il giorno in cui si mangiava carne, presenza abbastanza rara sulla tavola dei contadini (e della gente comune)., riservata ai giorni di festa. Il poeta sente che in cucina una teglia brontola, brontola, brontola, e una pentola che sfrigola, sfrigola, sfrigola, sprigionando il profumo dei cibi riservati alla domenica. Tra gli strumenti, ecco il girarrosto: 

La macchina è in punto; (...)

la macchina parte da sé con suo trepido intrigo:

la pentola nera è da parte,

che sfrigola, sfrigola, sfrigola...

Ed ecco che scende, che sale,

 che frulla

Che va con un dondolo uguale di culla.

Nel frattempo, la teglia è sul chiuso fornello, e la massaia si dedica alla cottura della bionda matassa di pasta.

Non possiamo ignorare il dettaglio della culla, un'allusione all'infanzia, alla protezione; la culla è un nido, la culla evoca la mamma, che il piccolo Giovanni avrà visto, chissà quante volte, intenta ai preparativi che precedono il pranzo della festa. Lo spiedo sembra una novità: uno strumento assai utile perché, mentre la carne arrostisce, la massaia può dedicarsi a cuocere altri piatti.


 Meteore e formiche (Il ciocco e il bolide)

...un lampo, uno scoppio...ecco scoppiare

e brillare, cadere, esser caduto

dall'infinito tremolio stellare,

un globo d'oro, che si tuffò muto 

nelle campagne...

Il Bolide, come Il Ciocco, fa parte dei Canti di Castelvecchio, dove io riscontro più forte, nel nostro Giovanni Pascoli, il senso di precarietà, piccolezza, nullità dell'uomo e del mondo. Questa percezione, anticipata in Myricae, qui si fa più intensa: e la paura del Bolide minaccioso quanto di natura ignota, viene idealmente comunicata forse ai morti, forse alla campagna; ma innanzitutto alla madre:: 

...Lì presso il camposanto,

accorrerebbe la mia madre in pianto.

Mi sfiorerebbe appena con le dita:

le sue lagrime, come una rugiada

nell'ombra, sentirei sulla ferita (...)

(...) dove tu sorridi

eternamente sopra il tuo giaciglio

fatto di muschi e d'erbe, come i nidi


E nel frattempo, il misterioso bolide 

  (...) si tuffò muto nelle campagne, 

come in nebbie vane,

vano (...)

Attorno a lui, nessun vivente a cui comunicare il proprio smarrimento: 

(...) Vedeste?

Ma non v'era che il cielo alto e sereno (...)

Cielo e non altro: il cupo cielo (...)

(...) il cielo, in cui sommerso

mi parve quanto mi parea terreno.

L' insignificanza dell'uomo nell'universo, per cui la Terra è solo una stella tra le stelle, fa tremare il poeta che, isolato nel silenzio deserto della notte, non trova nel Cielo un interlocutore, com'era stato in X Agosto (E tu, Cielo, dall'alto dei mondi infinito immortale...).


Il ciocco è un poemetto, dove un pezzo di legno da ardere viene gettato nel caminetto, mentre una famiglia di contadini si appresta a consumare la cena. Il capofamiglia, il babbo, versa da bere ai familiari, fuorchè ai più giovani, che ne assaggiano un goccio dal bicchiere della mamma (così si usava anche nella famiglia del poeta? Il gesto di bere dal bicchiere della mamma ha un che di affettuoso). Il vino viene versato dal babbo esperto:

piano piano,

 perché non croccolasse.

La luce delle stelle, meravigliosamente intensa nel buio della campagna, viene scambiata per un incendio:

Non c'era nella notte altro splendore

che di lontane costellazioni

Dalle lontane costellazioni, infinitamente grandi e misteriose,  al mondo minuscolo delle formiche: dal tronco tagliato della quercia, cui apparteneva il ciocco, la vita aveva continuato imperterrita il suo corso:

e un'altra vita brulicò nel legno

che intarmoliva: un popolo infinito

che ben sapeva l'ordine e la legge,

vi impresse i solchi di città ben fatte.

 miriadi le formiche, che come gli antichi greci costruivano città ben fatte, dove oltre l'ordine, la legge e l'operosità senza limiti, non mancavano i più teneri affetti familiari e il rispetto per i morti:

e chi dentro allevava i dolci figli

e chi portava i cari morti fuori. 

Ma il mondo operoso, instancabile delle formiche viene scalzato via, devastato, fatto a pezzi da altri colpi d'accetta, per ricavarne dei ciocchi. Quelle creature, la cui vita si risolve in un anno, andarono in parte a ricongiungersi col Tutto, ma una parte continuò a vivere in un ciocco:

E chi faceva nuove case ai nuovi,

e chi per tempo rimettea la roba,

e chi dentro allevava i dolci figli, 

e chi portava i cari morti fuori.

Tutto come prima: il popolo  delle formiche infaticabili aveva proseguito coraggiosamente la propria vita, finché quel ciocco non fu buttato ad ardere; e il poeta esprime la sorte maligna e crudele che si abbatte sui tenaci abitatori: il fuoco divora mille madri in fuga, che corrono disperate pei muschi della scorza arsita, portando con sé i figli, ma il fuoco le sorbiva con un breve crepito. E' terribile quel verbo, sorbiva, riferito al fuoco spietato, distruttore, impassibile. Ma gli uomini e le cose ignorano il dramma del piccolo popolo. Il poeta si fa interprete del dolore e della paura delle formiche, che vedono le donne come gigantesse filatrici e, soprattutto, i mostri che reggean concavi laghi di sangue ardente.

La pietà del poeta che si fa piccolo, che osserva con lo sguardo terrorizzato delle formiche gli uomini e le donne che nulla sanno del loro dramma, identifica l'insignificante presenza dell'uomo nel cosmo con le misere formiche divorate dal fuoco con case e figli. La Terra non è altro che un minuscolo ciocco, e gli uomini uno spolverio di moscerini,  attorno alla lanterna che un bimbo trasporta nell'oscurità della campagna.

Illusoria è la pace che sembra regnare nel cielo immenso, tra le costellazioni:

La, dove i mondi sembrano con lenti passi,

come concorde immensa mandra,

pascere il fior dell'etere pian piano

è tutto un susseguirsi di crolli, di stelle in fuga, le quali a loro volta non sono se non insignificante polvere del cielo, mentre la guerra urania prosegue senza sosta, e proseguirà finchè

(...) i mondi,

fatti più densi dal cader dei mondi,

stringan le vene, e succhino d'intorno

e in sé serrino ogni atomo di vita.

E quando terminerà la guerra tra stelle e stelle, tra monde e mondi,  allora sarà la morte del cosmo

E nel silenzio, tutto avrà riposo 

dalle sue morti, e ciò sarà la morte.

E l'Universo sarà una cripta di morti astri, di mille fossili mondi, un sepolcreto dove giacerà il gran Tutto.

Ma finché la Terra avrà vita, potrà subire catastrofi inimmaginabili, e con essa gli uomini, miseri abitatori di quel ciocco  sperduto nell'Universo, anzi: un grano  nei granai del cielo, incessantemente minacciato, ora da una vagabonda mole, ora da una rossa meteora.  

L'anima dell'uomo, l'anima del poeta è un fanciulletto mesto, un fanciulletto malato, che ha bisogno di sentire attorno a sé il respiro della mamma, i rumori della casa e della strada, un suono di campane. L'anima fanciulla è terrorizzata dal silenzio, eppure non può sottrarsi al pensiero della fine del mondo, della fine dei mondi, dei Soli, dei Pianeti. Forse il poeta auspica una vita oltre la vita, una vita oltre la morte della Terra:

morire, si; ma che si viva ancora

intorno al suo gran sonno, al suo profondo

oblio (...)


E, mentre il ciocco continua ad ardere,  il contadino sapiente, che osserva il cielo e prevede quale sarà il tempo, e pensa ai lavori che lo attendono l'indomani: è tranquillo, anzi, è lieto, prevedendo la pioggia: l'estate di San Martino è durata abbastanza, ed ora i campi hanno proprio bisogno della pioggia; così, va a riposare contento, immaginando che l'indomani mattina lo sveglierà lo scrosciare dell'acqua. Le stelle sono per lui la Chioccetta e i Mercanti, presenze amiche della cara vita cui nutrisce il pane.




martedì 4 luglio 2023

G.Pascoli, Romagna (Myricae)

 Sempre un villaggio, sempre una campagna

mi ride al cuore (o piange), Severino:

il paese ove, andando, ci accompagna

l'azzurra vision di San Marino

sempre mi torna al cuore il mio paese (...)

E qui mi fermo, anche se la memoria de il Passator cortese,/  re della strada, re della foresta, mi attrae non poco per le parole stesse con le quali Pascoli ci racconta questo personaggio: bandito o trovatore? Forse l'uno e l'altro; lui,  re della strada, re della foresta , insieme a Pascoli, si smarrisce nel bosco incantato, nella magica dimora di un libro di fiabe, tra i versi di questa poesia.

Ma l'azzurra vision di San Marino è pura poesia, e il suo segreto sta in quell'aggettivo turchino e fresco come l'aria: vedi il Monte Titano, lo vedi - da lontano -  come se stessi percorrendo una strada della  Romagna.

Già m'accoglieva in quelle ore bruciate

sotto l'ombrello di trine una mimosa

che fioria la mia casa il dì d'estate

co' suoi pennacchi di color di rosa;


e s'abbracciava per lo sgretolato

muro un folto rovaio a un gelsomino;

guardava il tutto un pioppo alto e slanciato (...)

Lì, nei meriggi estivi, il poeta leggeva  L'Orlando Furioso o piuttosto una riduzione del poema, destinata ai bambini, i quali prediligono il simpatico Astolfo e il suo cavallo alato. Alcuni di noi, o di voi, che hanno potuto trascorrere in campagna le vacanze estive, magari con i nonni, ricorderanno di essersi talvolta rifugiati, dopo pranzo, in qualche angolo del cortile, dietro la legnaia, o anche nel fienile, in attesa di essere chiamati (con un fischio speciale)  dagli amici, per tanti bei giochi estivi, a cui da grandi si ripensa, inevitabilmente, con la stessa malinconia che ci prende guardando quei vecchi super-otto con cui le famiglie  immortalavano le gite e le feste. Nella nostra visione, i colori sono scialbati e lontani (è una pellicola ormai sbiadita...) ma vediamo la strada sterrata in mezzo ai prati, dove sfrecciavamo con la nostra Graziella, o con la Olmo, dono di Natale di tre o quattro anni prima, che era stata relegata in campagna, nella stalla vuota e in disuso. Così, si arrivava all'inizio dell'estate, e si ritrovava la bici un po' arrugginita, e più piccola dell'anno prima.                                                  Finché si era bambini, credo che quelle fossero le ore più belle per stare in compagnia ed evitare il riposino pomeridiano. In campagna, i bimbi non hanno mai voglia di dormire, ed è giusto così.                Pascoli rievoca bene quel momento così particolare, di attesa, quando tutto tace fuorché grilli e qualche rana:

...udia tra i fieni allor allor falciati

de' grilli il verso che perpetuo trema,

udiva dalle rane dei fossati

un lungo, interminabile poema(...)

Era quello il luogo del rimpianto. Pascoli sta parlando della casa di San Mauro, del suo nido. Che ne era stato, dopo che la famiglia dovette trasferirsi? Quale lo stato d'animo del poeta, ogni qualvolta la sua mente, la sua memoria ripercorreva quei tempi e quei luoghi? Parlo dell'infanzia, dei giochi, dei richiami tra bambini, delle mamme che chiamano i figli a cena. Oltre ai libri, il piccolo Pascoli amava la campagna, i giochi, adorava stare con i coetanei. La sua infanzia è il paradiso perduto; e, se è tale, la sua infanzia deve essere stata bella.

I luoghi dell'infanzia sono anche i luoghi destinati al distacco:

Ma da quel nido, rondini tardive,

tutti tutti migrammo un giorno nero(...)

Così più non verrò per la calura,

tra que' tuoi polverosi biancospini (...)

Il poeta non fa mistero della nostalgia immensa per i luoghi della sua infanzia: luoghi che sono persone, le persone a lui strappate, e il distacco doloroso da San Mauro di Romagna. Solo con la ricostruzione del "nido", con la casina  a Castelvecchio, il Nostro è riuscito a compiere quel miracolo che consiste  nella ricostruzione, pezzo dopo pezzo, dell'infanzia, che non significa solo ritrovare luoghi e recuperare oggetti, ma anche far rivivere persone, tornare a sentire le loro parole, comunicare con loro. 

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