domenica 22 ottobre 2023

Una bella classetta (racconto)

 

Una bella classetta tutta di femmine

Dai tempi dell'asilo sino al termine della scuola media, Agata dovette frequentare una scuola di suore; istituto privato, situato in una piazza che a quei tempi era anche bella, oltre che centrale.

La sua classe era un nido di piccole vipere, che poi crebbero diventando precocemente adulte sotto tutti gli aspetti, anche quello – ovviamente – del veleno inoculato alle vittime. Questa stessa classe, tutta di femmine perchè quella era la regola, fu la medesima per tutti gli anni in cui Agata frequentò quella scuola. Da bimbe divennero piccole donne, sempre le stesse e con le medesime abitudini, simpatie e antipatie.


All’asilo, la grande aula destinata ai giochi aveva delle panche – adeguate all'altezza dell'utenza – lungo tre pareti e, in un canto, un vecchio pianoforte nero che veniva utilizzato quando le bimbe intonavano canzoncine, filastrocche, girotondi; il pianoforte veniva suonato da una decrepita suora, più vecchia del pianoforte, molto severa, alta e corpulenta, ma gialla come un limone, con tratti stranamente mascolini. Oggi, nessuno affiderebbe i propri figli/e a una donna simile.

Agata partecipava a questi girotondi, sebbene non venisse quasi mai scelta per stare al centro, ad esempio per fare la bella lavanderina, o per agitare il fazzoletto o per mimare altre azioni: le dicevano che non era capace e, quando le permettevano di assumere quel ruolo privilegiato, era per farsi beffe di lei. Durante i momenti di libero gioco, le bambine formavano gruppetti, e sempre Agata se ne stava da sola, seduta e immobile all’estremità di una panca, a guardare. Oggi, un caso del genere forse non passerebbe inosservato: alcuni bambini si comportano ancora così, ma i tempi sono cambiati, fortunatamente, le maestre rilevano queste situazioni e avvertono famiglie talvolta disposte ad ascoltare e collaborare, anche se non sempre, anche se alcuni genitori non vogliono ammettere tendenze al bullismo da parte del proprio figlio.

Agata con sapeva con chi giocare e talvolta, per noia o per dispetto, si infilava nella tasca del grembiulino alcuni giochini che le piacevano particolarmente. Erano oggetti molto vecchi, addirittura fatti di gesso dipinto, e stavano sotto tutti gli altri, sul fondo del fustino di detersivo utilizzato come contenitore, perché alle altre bambine non interessavano, mentre Agata ne era, invece, particolarmente attratta. Poi, quatta quatta, la bambina li depositava nel suo cestino di vimini, e li portava a casa, dove li nascondeva in un angolino affinchè nessuno li vedesse.

-Sono solo miei! - pensava.

Tuttavia la scoprirono. Le piccole compagne o le tue compagnette, come dicevano le suore, furono leste nel riferire alla suora l'accaduto. Il comportamento di Agata venne sanzionato: le ordinarono di stare seduta, mentre le altre facevano i loro girotondi e canti (compresa La danza del serpente, che tanto le piaceva); ma, soprattutto, lo riferirono alla mamma, che lo raccontò al papà. E questa fu la punizione più dolorosa. -A letto senza cena, le disse. -E non farlo mai più. Domani porterai a scuola un tuo giocattolo. Così Agata, con dispiacere, iniziò da quel momento a dover fare a meno di un gioco; ma, per quella volta, poté scegliere, e scelse quello che le piaceva di meno.

Questa forme di protesta, ossia l'impadronirsi di un gioco non suo, significava semplicemente “Io esisto!” .

Presto, dovette trovare un'altra formula per veicolare lo stesso messaggio, e una volta fuggì. Dopo aver chiesto il permesso di andare in bagno, riuscì a sgattaiolare nel corridoio, poi scese le grandi scale di marmo color avorio, e uscì dal grande portone dai vetri smerigliati incorniciati di legno ; la suora guardiana, una vecchissima suora piccola, scheletrica, con il viso di teschio e la pelle terribilmente gialla, era probabilmente in cappella - una grande cappella recentemente rinnovata, spoglia, brutta, ma con una grande Maria Immacolata di gesso bianco e azzurro, intenta a schiacciare il capo al serpente -. Agata riuscì addirittura ad uscire dal cancello, proseguì lungo il marciapiede per tornare a casa, ma fu raggiunta prima che potesse attraversare la strada: il grande cancello cigolante l'aveva tradita, e la vecchia suora era accorsa. Da quel momento, ad ogni sua richiesta di andare in bagno comportò uno stretto controllo da parte della mestra.

Talvolta, forse esasperata per la solitudine e la noia, cercava di farsi notare chiedendo a un gruppo di compagnette il permesso di giocare con loro. Non la volevano, anche se qualcuna, dall'alto della sua autorità di bambina-super, suggeriva pietosamente alle compagne -Dai, lasciamola giocare, in fondo è una bambina come le altre-

E quell'espressione, “come le altre”, le rimase conficcata nella memoria, come il famoso chiodo di Santa Rita.

-Ma io non sono come le altre... - rifletteva; lei per prima si sentiva diversa, senza comprenderne il motivo. Diversa e basta, come le avevano sempre detto a casa: qualche volta, addirittura per lusingarla.

In realtà, Agata non era proprio l'unica a non essere accettata: forse mancava loro il coraggio di proporsi; forse ritenevano che le compagne, così coese come gruppo, rappresentassero un pericolo. Oppure avevano oggettive difficoltà, che oggi sarebbero segnalate, diagnosticate. Allora non era così, ed anche ad Agata queste bambine sembravano racchiudere in sé qualcosa di strano, di misterioso, non si avvicinava a loro. Poter essere a sua volta carnefice, era la sua vendetta.

Alle elementari I gruppetti erano ancora più compatti; sicuramente, le fanciulline erano più consapevoli dei propri privilegi; ma c'erano preferenze e favoritismi da parte delle suore-maestre , le quali erano troppo sicure del fatto loro per occultare atteggiamenti più accondiscendenti, o di spiccata simpatia, verso alcune bambine. Queste ultime tributavano regolarmente fiori e cioccolatini alla loro maestra, ed anche il classico souvenir kitsch, al ritorno da qualche viaggio.

Tra le quarta e la quinta elementare, passarono dalle parole ai fatti. Quelli che oggi sarebbero definiti senza esitazione atti di bullismo divennero palesi: non si limitavano più ad ignorarla o a rifiutarla: ora la cercavano, la attaccavano: era troppo divertente farla arrabbiare. Le bambine-bulle avevano un'apparenza innocente, ma erano in realtà molto sveglie; agivano tranquillamente, nei corridoi, davanti a una o più suore che che non facevano nulla per impedire azioni o parole che non erano giocose, ma intenzionalmente offensive, ripetute, e sempre nei confronti della stessa persona, quella più fragile, presa di mira perché non sapeva reagire. Pertanto, si trattava di “bullismo” a tutti gli effetti: infatti c'era un capo indiscusso, e tante gregarie. Ma allora, tutto ciò non era ancora oggetto di attenzione, non erano comportamenti codificati, identificabili nella loro specificità, e gli adulti non si impegnavano quanto avrebbero dovuto per fermarli, per impedirne la ripetizione. Certo, il termine “bullo” era utilizzato nel linguaggio comune, ma veniva riferito ai cosiddetti “ragazzacci”, “monellacci”, quelli che stavano tutto il giorno per strada e si davano arie da adulti; l’espressione “non fare il bullo” si riferiva ad atteggiamenti che, di solito, non si ripercuotevano su altri, non danneggiavano fisicamente o moralmente il compagno più debole. Insomma, il bullismo già esisteva, sebbene con altri nomi, con altre modalità e mezzi, ma non meno crudeli, soprattutto se messo in atto da gruppi femminili. Agata però non stava zitta; rispondeva a chi la tormentava (non sapeva picchiare), riferiva alla maestra, e anche a casa, ai genitori. “Mi prendono in giro”, diceva, non osando, raccontare tutto quello che in realtà accadeva. Un po' perché si vergognava della propria inettitudine, e poi, se avessero detto che era colpa sua?

Le maestre si avvicendavano, ma nessuna aveva voglia di ascoltare Agata, per non dover sgridare le loro favorite; Agata chiedeva aiuto: era un'autentica richiesta d'aiuto, quella che rivolgeva alle suore-maestre. Loro minimizzavano, le dicevano che erano solo scherzi, e che lei era troppo permalosa. Una suora toscana la chiamava grulla, e persino strulla, parola forse inventata, forse una arcaismo.

Ma non si trattava tanto di capricci, perchè anche recarsi in bagno era diventato un grosso problema. Agata non lo chiedeva durante le ore di lezione, perchè si vergognava, sentendosi impacciata e rigida. Tutte avrebbero riso fragorosamente! Approfittava della ricreazione per andare in quei bagni senza chiavi.

Le bambine aprivano la porta del bagno in cui Agata si appartava; gliela aprivano ogni volta, tutti i giorni.

Aprivano e ridevano: risate infantili, non per questo meno terribili.

Ciò la costringeva a tenere ferma la porta, e pertanto non riusciva nemmeno a sedersi su quei micro- gabinetti, e spesso, per l'insistenza delle compagne e i tentativi da parte sua di non permettere che entrassero, faceva la pipì sul pavimento, fuori dalla tazza, sentendosi morire per ciò che sarebbe accaduto. Esse, infatti, attendevano il momento in cui Agata usciva, per deriderla ferocemente -Hai fatto un lago! Ora lo diciamo alla suora.

Terrorizzata dalla minaccia e umiliata, supplicava le piccole carnefici (chiamiamole proprio così, come si fa oggi con i bulli!) di non dire nulla.

Un giorno non le riuscì proprio di recarsi in bagno, a causa delle solite bulle (abbastanza numerose e anche variabili, perchè tormentare Agata divertiva un po’ tutte). Nell’ora dopo la ricreazione vi fu il dettato di una poesia da studiare a memoria. La poesia iniziava con queste parole: “Che dice la pioggerellina di marzo…” (evidentemente si era nel mese di marzo) . Non si poteva uscire durante il dettato, e Agatina non riuscì a trattenerla; così, goccia dopo goccia, sotto la sua seggiola si formò un lago. Intanto, una bambina seduta due posti più in là, una delle gregarie, osservava con aria di disapprovazione e disgusto il pavimento, sul quale il laghetto andava progressivamente allargandosi, e poi guardava Agata.

Un altro divertimento per loro era sollevarle il grembiulino e la gonna, per mettere in vista le sue mutande di cotone quasi bianco da bambina povera. Così Agata provò a indossare i pantaloni, che non le piacevano perchè le altre bambine le avrebbero dato del maschio: piuttosto si lasciava sollevare la gonna. A differenza di lei, le compagne indossavano le calzine sempre candide, le scarpine alla bebè di lucida vernice, etc. Le guardava e pensava com'erano fortunate; il suo abbigliamento era ben diverso dal loro, e soprattutto i suoi vestitini non venivano lavati con frequenza. Aveva una o due gonne di stoffa scozzese, uno scamiciatino di lana, due camicette di flanella con il collettino ricamato, che avevano già un po' di tempo.

La pulizia o il suo contrario restano tuttavia un discorso a parte. In realtà non la “bullizzavano” per questo aspetto che forse oggi sarebbe preso in maggiore considerazione, ma per qualcos’altro che sicuramente loro stesse ignoravano, così come anche oggi, se noi chiediamo a un “bullo” perchè si comporta così, insistendo sempre con quella persona, avrà difficoltà a spiegarlo. Ci sono atteggiamenti persecutori che non hanno un perchè, e ci sono vittime designate, che assumono via via sempre più il “loro” ruolo.

Le cattive e reiterate azioni erano davvero molto evidenti, e lo furono sempre più, in quanto le risorse e l'inventiva verso la vittima designata diventava sempre più accanita, man mano che le bulle crescevano; la suora non interveniva né con severità né in altro modo: erano proprio quelle, infatti, le alunne che portavano in dono fiori, cioccolatini, e quant'altro. Quei comportamenti continuarono alle medie, con modalità diverse, certo più raffinate e cattive, anche cercando di spillare soldi alla vittima, ricattandola in vario modo. In quegli anni, Agata smise di riferire alle suore quanto accadeva, perchè se ne vergognava, e soprattutto perché i ricatti si moltiplicavano. Nel frattempo aveva imparato da quelle stesse compagne numerose parolacce, per lo più riconducibili alla sessuaità. L’insulto, dunque, era il suo sfogo. E il disegno. Riproduceva i tratti delle sue persecutrici: grotteschi, orribili, devastati, sanguinanti... E se stessa, bella e vincente.

Bella lo era davvero, dalle medie in poi: un mare di capelli lunghi e rossi; data la bellezza di quella capigliatura, non osavano più chiamarla “pel di carota”, ma usavano altri, più generici attributi. Il faccino pallido, imbronciato, gli occhi già molto truccati, con colori vistosi tipo blu mare, trucchi in crema iridescenti, le lunghe ciglia intrise di mascara, che risaltavano sotto la frangia folta. Non era più rotondetta ma snella e alta, per la sua età. Riguardo il modo di vestire, poco era cambiato: abiti smessi, che andavano di moda anni prima; il suo problema erano gli stivali, che era costretta a indossare in caso di pioggia: risalivano alle fine degli anni '50, cioè a vent’anni prima, avevano il tacco a rocchetto, erano oggetto di risate senza fine. Così, le giornate di pioggia erano il suo incubo. Da grande, pensava, mi comprerò decine di stivali; e così fece: ed ebbe un armoir stile catalogo Barbie.

Per quell'abbigliamento ridicolo e non proprio di bucato, Agata non sarebbe sfuggita a critiche salaci neppure in una scuola normale, pubblica; figuriamoci in un istituto di suore frequentato da bambine e ragazzine ricche, che indossavano jeans attillati e stretti (la zampa d'elefante era passata di moda anni prima, ma Agata la portava regolarmente...) con scarpe a punta e tacco a spillo 10/12. Usava molto, per chi se la poteva permettere, una borsa firmata da un celebre stilista, sempre di grande formato e quindi sproporzionata rispetto al fisico ancora infantile di molte ragazzine che si ostinavano a portarla come cartella per i libri. La mamma aveva acquistato ad Agata, in occasione del Natale, una borsa tipo “Speado” (così si chiamava) che era costituita da un cilindro orizzontale con un suo particolare logo e alcuni dettagli che facevano la differenza, secondo le compagne di scuola, le quali non mancarono di osservare che quella borsa era “tarocca”. Questo termine allora non esisteva, e le espressioni per indicare un accessorio non originale e destinato ai poveri che arrancavano cercando di imitare i ricchi, erano altre. Agata però andava fiera di quella borsa, la amava e la trattava con ogni cura, perchè era un dono della mamma: pertanto, anche le critiche e le canzonature le scivolavano addosso, e continuava a fare attenzione che la borsa pseudospeado non si sciupasse.

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Poichè il papà era cos

1 commento:

  1. Che dire...Probabilmente Agata sarebbe stata meglio (e probabilmente avrebbe avuto esperienze diverse) se all' asilo fosse seguita una scuola elementare comunale....e poi pure la media inferiore.....Quando la fauna umana cambia intorno a noi si prospettano nuove esperienze, nuovi paesaggi e nuove persone (che non è detto siano sempre facili).

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