domenica 22 ottobre 2023

Una bella classetta (racconto)

 

Una bella classetta tutta di femmine

Dai tempi dell'asilo sino al termine della scuola media, Agata dovette frequentare una scuola di suore; istituto privato, situato in una piazza che a quei tempi era anche bella, oltre che centrale.

La sua classe era un nido di piccole vipere, che poi crebbero diventando precocemente adulte sotto tutti gli aspetti, anche quello – ovviamente – del veleno inoculato alle vittime. Questa stessa classe, tutta di femmine perchè quella era la regola, fu la medesima per tutti gli anni in cui Agata frequentò quella scuola. Da bimbe divennero piccole donne, sempre le stesse e con le medesime abitudini, simpatie e antipatie.


All’asilo, la grande aula destinata ai giochi aveva delle panche – adeguate all'altezza dell'utenza – lungo tre pareti e, in un canto, un vecchio pianoforte nero che veniva utilizzato quando le bimbe intonavano canzoncine, filastrocche, girotondi; il pianoforte veniva suonato da una decrepita suora, più vecchia del pianoforte, molto severa, alta e corpulenta, ma gialla come un limone, con tratti stranamente mascolini. Oggi, nessuno affiderebbe i propri figli/e a una donna simile.

Agata partecipava a questi girotondi, sebbene non venisse quasi mai scelta per stare al centro, ad esempio per fare la bella lavanderina, o per agitare il fazzoletto o per mimare altre azioni: le dicevano che non era capace e, quando le permettevano di assumere quel ruolo privilegiato, era per farsi beffe di lei. Durante i momenti di libero gioco, le bambine formavano gruppetti, e sempre Agata se ne stava da sola, seduta e immobile all’estremità di una panca, a guardare. Oggi, un caso del genere forse non passerebbe inosservato: alcuni bambini si comportano ancora così, ma i tempi sono cambiati, fortunatamente, le maestre rilevano queste situazioni e avvertono famiglie talvolta disposte ad ascoltare e collaborare, anche se non sempre, anche se alcuni genitori non vogliono ammettere tendenze al bullismo da parte del proprio figlio.

Agata con sapeva con chi giocare e talvolta, per noia o per dispetto, si infilava nella tasca del grembiulino alcuni giochini che le piacevano particolarmente. Erano oggetti molto vecchi, addirittura fatti di gesso dipinto, e stavano sotto tutti gli altri, sul fondo del fustino di detersivo utilizzato come contenitore, perché alle altre bambine non interessavano, mentre Agata ne era, invece, particolarmente attratta. Poi, quatta quatta, la bambina li depositava nel suo cestino di vimini, e li portava a casa, dove li nascondeva in un angolino affinchè nessuno li vedesse.

-Sono solo miei! - pensava.

Tuttavia la scoprirono. Le piccole compagne o le tue compagnette, come dicevano le suore, furono leste nel riferire alla suora l'accaduto. Il comportamento di Agata venne sanzionato: le ordinarono di stare seduta, mentre le altre facevano i loro girotondi e canti (compresa La danza del serpente, che tanto le piaceva); ma, soprattutto, lo riferirono alla mamma, che lo raccontò al papà. E questa fu la punizione più dolorosa. -A letto senza cena, le disse. -E non farlo mai più. Domani porterai a scuola un tuo giocattolo. Così Agata, con dispiacere, iniziò da quel momento a dover fare a meno di un gioco; ma, per quella volta, poté scegliere, e scelse quello che le piaceva di meno.

Questa forme di protesta, ossia l'impadronirsi di un gioco non suo, significava semplicemente “Io esisto!” .

Presto, dovette trovare un'altra formula per veicolare lo stesso messaggio, e una volta fuggì. Dopo aver chiesto il permesso di andare in bagno, riuscì a sgattaiolare nel corridoio, poi scese le grandi scale di marmo color avorio, e uscì dal grande portone dai vetri smerigliati incorniciati di legno ; la suora guardiana, una vecchissima suora piccola, scheletrica, con il viso di teschio e la pelle terribilmente gialla, era probabilmente in cappella - una grande cappella recentemente rinnovata, spoglia, brutta, ma con una grande Maria Immacolata di gesso bianco e azzurro, intenta a schiacciare il capo al serpente -. Agata riuscì addirittura ad uscire dal cancello, proseguì lungo il marciapiede per tornare a casa, ma fu raggiunta prima che potesse attraversare la strada: il grande cancello cigolante l'aveva tradita, e la vecchia suora era accorsa. Da quel momento, ad ogni sua richiesta di andare in bagno comportò uno stretto controllo da parte della mestra.

Talvolta, forse esasperata per la solitudine e la noia, cercava di farsi notare chiedendo a un gruppo di compagnette il permesso di giocare con loro. Non la volevano, anche se qualcuna, dall'alto della sua autorità di bambina-super, suggeriva pietosamente alle compagne -Dai, lasciamola giocare, in fondo è una bambina come le altre-

E quell'espressione, “come le altre”, le rimase conficcata nella memoria, come il famoso chiodo di Santa Rita.

-Ma io non sono come le altre... - rifletteva; lei per prima si sentiva diversa, senza comprenderne il motivo. Diversa e basta, come le avevano sempre detto a casa: qualche volta, addirittura per lusingarla.

In realtà, Agata non era proprio l'unica a non essere accettata: forse mancava loro il coraggio di proporsi; forse ritenevano che le compagne, così coese come gruppo, rappresentassero un pericolo. Oppure avevano oggettive difficoltà, che oggi sarebbero segnalate, diagnosticate. Allora non era così, ed anche ad Agata queste bambine sembravano racchiudere in sé qualcosa di strano, di misterioso, non si avvicinava a loro. Poter essere a sua volta carnefice, era la sua vendetta.

Alle elementari I gruppetti erano ancora più compatti; sicuramente, le fanciulline erano più consapevoli dei propri privilegi; ma c'erano preferenze e favoritismi da parte delle suore-maestre , le quali erano troppo sicure del fatto loro per occultare atteggiamenti più accondiscendenti, o di spiccata simpatia, verso alcune bambine. Queste ultime tributavano regolarmente fiori e cioccolatini alla loro maestra, ed anche il classico souvenir kitsch, al ritorno da qualche viaggio.

Tra le quarta e la quinta elementare, passarono dalle parole ai fatti. Quelli che oggi sarebbero definiti senza esitazione atti di bullismo divennero palesi: non si limitavano più ad ignorarla o a rifiutarla: ora la cercavano, la attaccavano: era troppo divertente farla arrabbiare. Le bambine-bulle avevano un'apparenza innocente, ma erano in realtà molto sveglie; agivano tranquillamente, nei corridoi, davanti a una o più suore che che non facevano nulla per impedire azioni o parole che non erano giocose, ma intenzionalmente offensive, ripetute, e sempre nei confronti della stessa persona, quella più fragile, presa di mira perché non sapeva reagire. Pertanto, si trattava di “bullismo” a tutti gli effetti: infatti c'era un capo indiscusso, e tante gregarie. Ma allora, tutto ciò non era ancora oggetto di attenzione, non erano comportamenti codificati, identificabili nella loro specificità, e gli adulti non si impegnavano quanto avrebbero dovuto per fermarli, per impedirne la ripetizione. Certo, il termine “bullo” era utilizzato nel linguaggio comune, ma veniva riferito ai cosiddetti “ragazzacci”, “monellacci”, quelli che stavano tutto il giorno per strada e si davano arie da adulti; l’espressione “non fare il bullo” si riferiva ad atteggiamenti che, di solito, non si ripercuotevano su altri, non danneggiavano fisicamente o moralmente il compagno più debole. Insomma, il bullismo già esisteva, sebbene con altri nomi, con altre modalità e mezzi, ma non meno crudeli, soprattutto se messo in atto da gruppi femminili. Agata però non stava zitta; rispondeva a chi la tormentava (non sapeva picchiare), riferiva alla maestra, e anche a casa, ai genitori. “Mi prendono in giro”, diceva, non osando, raccontare tutto quello che in realtà accadeva. Un po' perché si vergognava della propria inettitudine, e poi, se avessero detto che era colpa sua?

Le maestre si avvicendavano, ma nessuna aveva voglia di ascoltare Agata, per non dover sgridare le loro favorite; Agata chiedeva aiuto: era un'autentica richiesta d'aiuto, quella che rivolgeva alle suore-maestre. Loro minimizzavano, le dicevano che erano solo scherzi, e che lei era troppo permalosa. Una suora toscana la chiamava grulla, e persino strulla, parola forse inventata, forse una arcaismo.

Ma non si trattava tanto di capricci, perchè anche recarsi in bagno era diventato un grosso problema. Agata non lo chiedeva durante le ore di lezione, perchè si vergognava, sentendosi impacciata e rigida. Tutte avrebbero riso fragorosamente! Approfittava della ricreazione per andare in quei bagni senza chiavi.

Le bambine aprivano la porta del bagno in cui Agata si appartava; gliela aprivano ogni volta, tutti i giorni.

Aprivano e ridevano: risate infantili, non per questo meno terribili.

Ciò la costringeva a tenere ferma la porta, e pertanto non riusciva nemmeno a sedersi su quei micro- gabinetti, e spesso, per l'insistenza delle compagne e i tentativi da parte sua di non permettere che entrassero, faceva la pipì sul pavimento, fuori dalla tazza, sentendosi morire per ciò che sarebbe accaduto. Esse, infatti, attendevano il momento in cui Agata usciva, per deriderla ferocemente -Hai fatto un lago! Ora lo diciamo alla suora.

Terrorizzata dalla minaccia e umiliata, supplicava le piccole carnefici (chiamiamole proprio così, come si fa oggi con i bulli!) di non dire nulla.

Un giorno non le riuscì proprio di recarsi in bagno, a causa delle solite bulle (abbastanza numerose e anche variabili, perchè tormentare Agata divertiva un po’ tutte). Nell’ora dopo la ricreazione vi fu il dettato di una poesia da studiare a memoria. La poesia iniziava con queste parole: “Che dice la pioggerellina di marzo…” (evidentemente si era nel mese di marzo) . Non si poteva uscire durante il dettato, e Agatina non riuscì a trattenerla; così, goccia dopo goccia, sotto la sua seggiola si formò un lago. Intanto, una bambina seduta due posti più in là, una delle gregarie, osservava con aria di disapprovazione e disgusto il pavimento, sul quale il laghetto andava progressivamente allargandosi, e poi guardava Agata.

Un altro divertimento per loro era sollevarle il grembiulino e la gonna, per mettere in vista le sue mutande di cotone quasi bianco da bambina povera. Così Agata provò a indossare i pantaloni, che non le piacevano perchè le altre bambine le avrebbero dato del maschio: piuttosto si lasciava sollevare la gonna. A differenza di lei, le compagne indossavano le calzine sempre candide, le scarpine alla bebè di lucida vernice, etc. Le guardava e pensava com'erano fortunate; il suo abbigliamento era ben diverso dal loro, e soprattutto i suoi vestitini non venivano lavati con frequenza. Aveva una o due gonne di stoffa scozzese, uno scamiciatino di lana, due camicette di flanella con il collettino ricamato, che avevano già un po' di tempo.

La pulizia o il suo contrario restano tuttavia un discorso a parte. In realtà non la “bullizzavano” per questo aspetto che forse oggi sarebbe preso in maggiore considerazione, ma per qualcos’altro che sicuramente loro stesse ignoravano, così come anche oggi, se noi chiediamo a un “bullo” perchè si comporta così, insistendo sempre con quella persona, avrà difficoltà a spiegarlo. Ci sono atteggiamenti persecutori che non hanno un perchè, e ci sono vittime designate, che assumono via via sempre più il “loro” ruolo.

Le cattive e reiterate azioni erano davvero molto evidenti, e lo furono sempre più, in quanto le risorse e l'inventiva verso la vittima designata diventava sempre più accanita, man mano che le bulle crescevano; la suora non interveniva né con severità né in altro modo: erano proprio quelle, infatti, le alunne che portavano in dono fiori, cioccolatini, e quant'altro. Quei comportamenti continuarono alle medie, con modalità diverse, certo più raffinate e cattive, anche cercando di spillare soldi alla vittima, ricattandola in vario modo. In quegli anni, Agata smise di riferire alle suore quanto accadeva, perchè se ne vergognava, e soprattutto perché i ricatti si moltiplicavano. Nel frattempo aveva imparato da quelle stesse compagne numerose parolacce, per lo più riconducibili alla sessuaità. L’insulto, dunque, era il suo sfogo. E il disegno. Riproduceva i tratti delle sue persecutrici: grotteschi, orribili, devastati, sanguinanti... E se stessa, bella e vincente.

Bella lo era davvero, dalle medie in poi: un mare di capelli lunghi e rossi; data la bellezza di quella capigliatura, non osavano più chiamarla “pel di carota”, ma usavano altri, più generici attributi. Il faccino pallido, imbronciato, gli occhi già molto truccati, con colori vistosi tipo blu mare, trucchi in crema iridescenti, le lunghe ciglia intrise di mascara, che risaltavano sotto la frangia folta. Non era più rotondetta ma snella e alta, per la sua età. Riguardo il modo di vestire, poco era cambiato: abiti smessi, che andavano di moda anni prima; il suo problema erano gli stivali, che era costretta a indossare in caso di pioggia: risalivano alle fine degli anni '50, cioè a vent’anni prima, avevano il tacco a rocchetto, erano oggetto di risate senza fine. Così, le giornate di pioggia erano il suo incubo. Da grande, pensava, mi comprerò decine di stivali; e così fece: ed ebbe un armoir stile catalogo Barbie.

Per quell'abbigliamento ridicolo e non proprio di bucato, Agata non sarebbe sfuggita a critiche salaci neppure in una scuola normale, pubblica; figuriamoci in un istituto di suore frequentato da bambine e ragazzine ricche, che indossavano jeans attillati e stretti (la zampa d'elefante era passata di moda anni prima, ma Agata la portava regolarmente...) con scarpe a punta e tacco a spillo 10/12. Usava molto, per chi se la poteva permettere, una borsa firmata da un celebre stilista, sempre di grande formato e quindi sproporzionata rispetto al fisico ancora infantile di molte ragazzine che si ostinavano a portarla come cartella per i libri. La mamma aveva acquistato ad Agata, in occasione del Natale, una borsa tipo “Speado” (così si chiamava) che era costituita da un cilindro orizzontale con un suo particolare logo e alcuni dettagli che facevano la differenza, secondo le compagne di scuola, le quali non mancarono di osservare che quella borsa era “tarocca”. Questo termine allora non esisteva, e le espressioni per indicare un accessorio non originale e destinato ai poveri che arrancavano cercando di imitare i ricchi, erano altre. Agata però andava fiera di quella borsa, la amava e la trattava con ogni cura, perchè era un dono della mamma: pertanto, anche le critiche e le canzonature le scivolavano addosso, e continuava a fare attenzione che la borsa pseudospeado non si sciupasse.

.


Poichè il papà era cos

venerdì 20 ottobre 2023

 

Il gentile gatto d'angora incontra per la prima volta una bella gattina:

Passò una gatta, un'incantevole gatta, la cui vista mi riempì d'un'emozione sconosciuta. Fino allora, soltanto i miei sogni m'avevano mostrato quelle creature squisite, la schiena delle quali è adorabilmente agile. Mi precipitai co' miei tre compagni incontro alla nuova venuta...

L'esito non è dei migliori, il gatto inizia ad avere fame, non trova nulla, intraprende percorsi avventurosi alla ricerca del cibo, ma non lo portano a nulla, se non a correre gravi rischi, come quello di essere catturato e mangiato:

– Avete veduto quell'uomo che aveva una gerla e un micino? – mi domandò. – Sì. – Ebbene! s'egli ci avesse scorti, ci avrebbe accoppati e mangiati allo spiedo. – Mangiati allo spiedo! – esclamai. – Ma non è nostra la strada?... Non si mangia, e si è mangiati! 

Il povero gatto d'angora, non abituato a patire la fame e a stare sotto la pioggia, è infelice e spaventato, e rimpiange il calore della sua casa, nonché la carne cruda di cui la sua padrona lo nutre. Vedendolo così sofferente, un gattaccio da strada gli consiglia di tornare a casa. Il mondo esterno non è, evidentemente, il suo ambiente:

 Maledetta strada! maledetta libertà! Quanto rimpiansi la mia prigione! Quando fece giorno, il gattaccio vedendo che traballavo, mi disse in modo strano: – Ne avete abbastanza? – Oh sì! – risposi. – Volete ritornare a casa vostra? – Certo, ma come ritrovare la casa?– Venite; questa mattina, vedendovi uscire, compresi che un gatto grasso come voi non era fatto per le gioie aspre della libertà. Conosco la vostra dimora e vi metterò alla vostra porta. Quel degno gattaccio mi diceva tutto ciò con semplicità. Quando fummo arrivati: – Addio, – mi disse, senza mostrare la minima emozione.

E' un po' sprezzante, il compagno randagio. Il gatto d'angora, felice di essere tornato a casa, invita il suo salvatore a rimanere nella tiepida casa; egli, però, disprezza le comodità e preferisce una vita libera. Infine si allontana:

E riascese sui tetti. Vidi la sua grande ombra magra tremare di contento sotto le carezze del sole che levava.

 I Gatti di Zola (parte prima)

La passione per i gatti del nostro Zola erompe in alcune parti di romanzi (e racconti) nei quali, senza alcun apparente motivo, irrompono, spesso con aria di mistero, queste creature.

Dal romanzo Nanà, di cui abbiamo parlato in precedenza. 

Immaginate una portineria: la portineria del palazzo in cui risiede Nanà: un edificio elegante, costruito di recente nella rinnovata Parigi di fine Ottocento. Nell'appartamento di Nanà le stanze sono stracolme di mobili e oggetti di pessimo gusto, ma adorabili per un'attricetta diciottenne la quale, nell'arco di una sola sera, ha raggiunto, grazie alla sua performance e soprattutto alle sue ragguardevoli nudità, la celebrità indiscussa presso il pubblico maschile parigino, frequentatore assiduo del teatro di varietà. Tanti, tantissimi ammiratori si sono recati presso il tempio di questa sorta di dea dell'amore, dopo che ha interpretato,  con  ridicola goffaggine, ma con acuta consapevolezza dei gusti del suo pubblico, il personaggio di Afrodite, che dialoga con il pubblico a colpi d'anca e altre movenze simili. Un vero scandalo per la Parigi benpensante, e tuttavia apprezzata da uomini di estrazione altoborghese, anche politici di spicco, o discendenti da antiche famiglie nobili, ma ormai decadute, che verrebbero presto schiacciate sotto il tallone tenero e delicato di Nanà. Persino gli uomini più ligi ai valori familiari crollano, vinti da una discinta Nanà (in mutande e a seno nudo quando, nel suo camerino pervaso da profumi di toelette femminile, di lavacri sospetti e di tabacco, irrompono due uomini dell'èlite parigina).  Non solo i frequentatori assidui dei salotti alla moda, non solo ingenui studentelli o "bebé", ma banchieri. nobili, politici affermati si prostrano devoti, di fronte a un lembo sfuggente della camicia di Nanà.

Nella portineria del palazzo, c'è un vecchio tavolo malandato, sporco, con quegli inconfondibili segni di bicchiere, dove stanno uno sull'altro i mazzi di fiori destinati all'attrice diciottenne. La portiera, annoiata, lavora ai ferri, in attesa che quei mazzi ingombranti siano portati a colei cui sono destinati. Scende la cameriera, ne fa un fascio, schiacciandoli senza pietà (conosce il destino di quei poveri fiori). In poche ore, molti sono  gli uomini che si sono radunati, accalcati in quel turpe buco, e attendono impazienti l'uscita di Nanà; nel frattempo...

"...restava solo una rosa che appassiva vicino a una gatta nera, acciambellata per terra, mentre i suoi gattini si scatenavano in folli corse, in galoppi sfrenati, tra le gambe di quei signori."

E poi, sul luogo di lavoro - così assurdamente lascivo, e tuttavia così serio!- di Nanà, 

... in mezzo a quel fuggi-fuggi di ragazze sparse per i quattro piani, lui [l'innamorato quanto illuso Conte Muffat] scorse distintamente soltanto un gatto, un grosso gatto rosso, il quale, in quella fornace intossicata degli odori del muschio, scendeva i gradini, strofinando la schiena contro le sbarre della ringhiera, con la coda dritta.

E così', dalla splendida cornice che circonda la bella Nanà (ma che finirà per spegnersi, per appassire, proprio come quei mazzi policromi di rose, come le speranze ambigue, inconsistenti, effimere degli ammiratori, che desideravano avere un giorno o poco più, da lei e dalla sua ineffabile e fresca giovinezza ... ) uno splendido gatto, o una splendida gatta, fa mostra di sé, senza manifestare disprezzo, o almeno quel senso di sfiducia/ambiguità  che sembra tenerli lontani dalla nostra (tristissima) umanità.

Amiche lettrici ed eventuali lettori, abbiamo visto solo un esempio/ modello della perizia e conoscenza di Zola, nei confronti dei nostri amati gatti. Ma, ovviamente, non è abbastanza, e vi dimostrerò come altri passi svelino la sua predilezione per questa specie.

Rechiamoci, ora, presso la sontuosa salumeria dei signori Lisa e Quenu, due coniugi che vivono nella grassa tranquillità e sicurezza borghese, grazie al loro incessante lavoro, che consiste nella trasformazione del maiale in svariate specialità gastronomiche: costolette, salami, salsicce, lardo, strutto, sanguinacci, solo per citare qualcuno dei prodotti che li hanno resi celebri e stimati nel quartiere delle Halles. Ne abbiamo parlato, quando abbiamo trattato il tema della vertigine, che ne Il ventre di Parigi  scaturisce dall'abbondanza, dall'accumulo forsennato di elenchi di cibi d'ogni genere. Ebbene, inizialmente, entrando nel negozio dal pavimento e dai marmi immacolati, forse sarete un po' infastiditi  dall'odore penetrante della carne suina e, in generale, da tutto l'ambiente che trasuda untume, nonostante l'impeccabile, quotidiana pulizia che Lisa riserva al suo ben negozio.  Lì, è approdato il triste Florent, fuggito dalla Cayenna, dove era stato deportato in seguito ai fatti del 1852; è il fratellastro di Quenu, lo ha praticamente allevato dopo la morte della loro madre. Ma l'uomo,  con la sua magrezza ascetica, e l'eterno abito stracciato e sbiadito, contrasta spietatamente con quell'ambiente, con la rispettabilità di quella coppia benestante e gelosa della propria pace. 

Nella loro casa vi è un grosso gatto giallo, di nome Mouton, che partecipa ai lavori di preparazione dei salumi:

La piccina [Pauline, figlia di Lisa e Quenu] andò a prendere il grosso gatto giallo, lo depose sulle ginocchia del cugino, dicendo che anche Mouton voleva sentire la storia. Mouton invece saltò sul tavolo. Rimase là, accovacciato, con la schiena arcuata, a contemplare quell'uomo alto e magro, che da quindici giorni sembrava essere per lui un soggetto di profonde e serie riflessioni (...) Mouton, che era rimasto accovacciato, con gli occhi sempre fissi su Florent, quasi fosse stupito dal suo racconto, si ritrasse un po', con molta malagrazia. Si raggomitolò, facendo le fusa, col muso sulla carne tritata.

Mouton, che aveva avuto tutto il tempo sotto il naso quel piatto di carne macinata, era probabilmente infastidito e nauseato da tutta quella carne. S'era alzato, raschiando il tavolo con la zampa con la foga dei gatti che vogliono sotterrare i loro bisogni. Poi, voltata la schiena al piatto, si distese sul fianco, stiracchiandosi tutto, con gli occhi socchiusi, la testa rovesciata in un atteggiamento beato. Allora tutti quanti fecero i complimenti a Mouton; dissero che non rubava mai niente, che gli si poteva lasciare la carne davanti. Pauline raccontò molto confusamente che dopo cena le leccava sempre le dita e le puliva la faccia, senza morderla.

Mouton dormiva profondamente, con la pancia per aria una zampa sul naso e la coda sui fianchi che gli faceva da piumino; e dormiva con un tale piacere felino...

 

Ma ecco il trionfo della felinità, espressione pura della passione e conoscenza di Zola verso i gatti: uno tra i Racconti a Ninon, intitolato Il paradiso dei gatti è l'avvincente storia di un gatto, che racconta la propria avventura. L'incipit, che è anche la cornice del racconto, è questo:

Mia zia, morendo, mi lasciò un gatto d'Angora, ch'è la più stupida bestia che io conosca. Ecco ciò che il mio gatto mi raccontò, una sera d'inverno, davanti le ceneri calde: 

E, da questo momento, Zola dà la parola al gatto:

Avevo allora due anni, ed ero il gatto più grasso e più ingenuo che si potesse vedere. In quella tenera età, mostravo ancora tutta la presunzione d'un animale che sdegna le dolcezze del focolare. E tuttavia quanti ringraziamenti dovevo alla Provvidenza per avermi collocato presso vostra zia! La buona donna mi adorava. Avevo in fondo d'un armadio una vera camera da letto, cuscini di piuma e tripla coperta. Il nutrimento valeva il letto; mai pane, mai zuppa; null'altro che carne, buona carne freschissima. Ebbene! in mezzo a queste dolcezze, non avevo che un desiderio, un sogno: scivolare dalla finestra semiaperta e scappare sui tetti. Le carezze mi sembravano inani, la mollezza del mio letto mi cagionava nausee; ero grasso da stomacare me stesso. E, lungo tutta la giornata, m'annoiavo d'essere felice.

(segue)



sabato 7 ottobre 2023

Zola Vertigo

 ZOLA VERTIGO

Quanto scritto un po' di tempo fa, riguardava alcuni tra i romanzi di Zola, di argomenti tra loro diversissimi, ma connotati da quell'ombra, più o meno intensa, di serpeggiante follia ereditata dall'antenata Adelaide Fouque. Un elemento per lo più costante è, spesso in più passi del romanzo, un accumulo straordinario di oggetti, o persone, o emozioni che creano nel lettore un senso di ansia, di impotenza di fronte all'eccesso tanto amato dal nostro autore. Prendiamo Nanà: fin dall'inizio, un tale turbinio di personaggi, che è facile per il lettore confondere le caratteristiche di ciascuno. Anche perché si tratta, comunque, di personaggi abbastanza simili, partecipi come sono della vita mondana di un teatro di varietà, dove recitano attricette e attori d'infimo ordine. Tutti loro, gravitano attorno a quel centro d'attrazione che, nel bene o nel male, è sempre Nanà. Forse è superfluo ricordare ai miei lettori questo personaggio, così ben riuscito che il romanzo in cui lei è protagonista è uno dei più noti, insieme all'Assommoir, come dimostra il fatto che sono quelli più presenti in traduzione, laddove altri sono molto rari, sul mercato. Nanà è figlia dell'infelice Gervaise e dell'ambiguo Coupeau. I suoi "fratellastri" (in quanto nati da sua madre e dal perfido Lantier) sono rispettivamente Claude ed Etienne; se il germe dell'ubriachezza e della follia cova nei due maschi, altre sono le tendenze e i vizi di Anne, detta appunto Nanà. Ragazzina, aiuta la zia a confezionare fiori artificiali; ma il suo fisico prorompente le consente ben altra carriera: a 18 anni, mediocrissima cantante, attira folle di uomini giovani e attempati, per le sue curve generose che esibisce con altrettanta prodigalità. Il capocomico, un omaccio emblematico per volgarità, rozzezza, ignoranza e sensualità portate alle estreme conseguenze, le offre il palcoscenico (di cui diventerà regina) ed un pubblico enorme, smisurato; e qui inizia il senso di vertigine di cui si parlava, determinato da una sterminata folla di ammiratori che vanno e vengono, entrano ed escono, talora soddisfatti talora no, dal camerino dell'attricetta o dalla sua (lussuosa) casa. Presenze innumerevoli che affollano le sue stanze pacchiane, cercando, spesso invano, un posticino, un angolino, un sottoscala in cui sostare in attesa che la diciottenne si liberi dagli impegni a raffica che caratterizzano le sue giornate, prima di salire sul palco. Uomini di ogni età, da adolescenti poco più che bambini a vecchi banchieri e nobili dalle tasche accomodanti. Questa è Nanà, e il vortice di cui sopra sono le sue ore, le sue giornate turbolente, piene di uomini, fiori, biglietti, regali.  

Ma l'accumulo maniacale e quasi folle - utilizzato tuttavia con una tale perizia, con un tale virtuosismo che si trasforma in una policroma sinfonia - il proliferare pauroso, talvolta interrotto, e poi ripreso con rinnovata energia, di oggetti, colori, sensazioni che il lettore vive attraverso la percezione diretta, il coinvolgimento docile e inevitabile di tutti i sensi, a tal punto da attendere con ansia, pagina dopo pagina, le sontuose teorie di immagini che non danno tregua - lo trovate ne Il ventre di Parigi. Qui, la tensione descrittiva, cumulativa, è suprema: sono le verdure, i fiori, i frutti, i formaggi, i pesci e tanta, tanta carne, e tanta, tanta pinguedine, tanto grasso che deborda dalle pentole, dai personaggi, che invade le stanze, le pagine, e che sazia il lettore; sono loro il connettivo, la sostanza del romanzo. Gli elenchi infiniti di ortaggi, solo per fare un esempio, si materializzano, diventano palpabili, e soprattutto il loro colore - nelle diverse condizioni di luce - attrae, ipnotizza il lettore che attende altre montagne di frutta, di verdura, di qualsiasi cosa abbia quella magia che crea, dal nulla, un intreccio intenso e inesplicabile che coinvolge i tutti sensi. E noi ammiriamo tanta perizia, e non senza curiosità incontriamo l'artista ribelle Claude Lantier (successivamente protagonista de L'opera) che da quelle Halles, affollatissime di forme e di colori, è affascinato, è stregato. E mentre accompagna l'infelice, affamato, magro e dissonante Florent, deplora con violenza la stupidità, la cecità dei suoi tempi, dove tutto sta cambiando con una rapidità vertiginosa, mentre i placidi accademici continuano a veleggiare sulle onde pacifiche, quanto illusorie, della tradizione pittorica, così dissonante di fronte alla realtà giovane e dirompente della nuova pittura.

giovedì 28 settembre 2023

  1. Era la fine degli anni Settanta, e ancora i ragazzi si affollavano in fondo alla scalinata delle Caravelle, luogo che ancora oggi suscita memorie, nei ragazzi/e di un tempo, studenti del Liceo D'Oria. Ogni volta che passo di lì, la memoria corre, ed è difficile non ricordare, non commuoversi. Non so se gli studenti che oggi affollano le aule di quella scuola delle mie prime paure ed emozioni sentano/percepiscano quello che c'è stato, in un passato ormai remoto. Le classi arrivavano alla sezione N, in quarta ginnasio, ossia il primo anno. Per un Classico, oggi è un numero da fantascienza, penso. Alla fine della quarta ginnasio, c'era la scrematura, e le classi arrivavano più o meno alla H. Non dimenticate che, anche lì, vigeva quella gerarchia delle classi, per cui le migliori erano la A e la B. Ciò accadeva negli anni Settanta, ma non credo che molto sia cambiato e, del resto, non mi riguarda. Ma è' più carino ricordare che, in quei tempi, tanti, tantissimi ragazzini affollavano lo spazio di fronte alla scalinata. Tutti gli studenti, tranne i ritardatari recidivi, erano già lì, almeno dalle sette e mezza, quando il cancello e il portone della scuola era chiuso, e nessuna situazione particolare l'avrebbe fatta aprire. I ragazzi erano seduti sulle murette, dove c'era spazio, o chiacchieravano in piedi, a piccoli gruppi. C'erano, naturalmente, anche i fidanzatini un po' in disparte. E si fumava, si fumava. Queste memorie di derivano dall'ascolto di "Compagno di scuola" di Venditti, dove l'ambiente è molto precedente rispetto alle mie personali esperienze di liceale, ma è del tutto simile. Vedevi tanti ragazzi, al suono della prima campana e al contemporaneo aprirsi del grande cancello di ferro nero che portava nel cortile della scuola, salire i larghi gradini di mattoni rossi; si continuava a fare chiasso e a fumare. Abiti, scarpe, montature d'occhiali erano così diverse da quelle degli adulti di allora; i ragazzi di allora li riconosci  in quelli di oggi, nell'affermare la propria individualità, e nell'affrancamento dai genitori e dalla loro volontà. Negli anni '79-'80 la moda per i ragazzi era diversa, ma era pur sempre moda. La libertà non si esprimeva attraverso jeans strappati o piercing, ma piuttosto attraverso la possibilità, nell'area scuola, di fumare quanto ci pareva e piaceva, cosa che da molto tempo non esiste più: in bagno, nei corridoi ed anche in classe, durante l'intervallo. Nella famosa "ora di religione", cantata anche da Venditti (...quando tutto il mondo sembra buono, anche il professore), uscivamo a gara dall'aula, per interminabili soste in bagno, che terminavano con la campanella di fine ora. Nessuno ci fermava ed eravamo molto più liberi di oggi, in determinate situazioni scolastiche. Anche il professore fumava in classe, e a noi sembrava normalissimo. Fumava il prof, fumavamo noi. Eravamo, tuttavia, rispettosi verso il mondo adulto, per una sorta di abitudine e familiarità nei confronti della gerarchia, che comunque si stava sgretolando, anno dopo anno. 

mercoledì 27 settembre 2023

Alle origini della saga dei Rougon-Maquart

 Alle origini della saga dei Rougon-Maquart

Iniziate pure a leggere la saga, o per meglio dire il Ciclo, dal romanzo il cui titolo più vi affascina, vi attrae: l'amplissima produzione letteraria di Emile Zola è tutta bella, e vi catturerà, qualunque sia l'opera da voi scelta. Amerete Zola, e questo è un fatto. Tuttavia, se accettate un consiglio, vi direi che seguire l'ordine nel quale furono pubblicati i romanzi, forse non è la migliore delle scelte. 

La saga familiare, con un'infinità di rami nel suo albero genealogico, non deve necessariamente iniziare dalle origini. Il primo volume della raccolta, La fortuna dei Rougon, potrebbe apparire un poco meno avvincente rispetto agli altri, in quanto spiega le origini della famiglia. E' squisitamente narrativo-descrittivo, in quanto deve porre le basi per una lunghissima, quanto appassionante, serie di storie che coinvolgeranno i discendenti dell'infelice Adelaide, la radice malata dalla quale germoglieranno i discendenti, ai quali la donna lascerà, come eredità, almeno una traccia della propria malattia mentale. 

Per Zola, e per le finalità del romanzo naturalista, le basi, le radici familiari erano essenziali: solo così, infatti, era possibile spiegare l'origine di comportamenti patologici, decodificare le basi che hanno dato vita allo straordinario Ciclo dei Rougon-Maquart. Questa serie di romanzi si fonda su una tesi, e la finalità è lungimirante: correggere determinati comportamenti, che segnavano e tuttora segnano, la società, le famiglie, gli individui. Dipendenza da alcolici, improvvisi e irrefrenabili scatti di violenza (sulle donne, ma non solo) che spesso conduce all'omicidio. Gli aspetti degenerati della società francese della seconda metà dell'Ottocento, ma in particolare dell'ambiente parigino, avido e insaziabile, corrotto e decomposto, con gli esemplari umani e le innumerevoli varianti sui quali si basa lo studio accurato dell'autore, sono l'oggetto attorno ai quali si svolgono vicende più o meno complesse. L'ambientazione cambia continuamente, da romanzo a romanzo, ma le finalità permangono: denunciare la corruzione della società per smantellare le sue cause.

A SAFFO, parte 2^

 Dobbiamo ringraziare la bella Saffo-capelli di viola (epiteto omerico? no, e' alcaico), in particolare noi donne, ragazze, attente ai nostri diritti, che curiamo costantemente affinché non siano calpestati (come i giacinti, si diceva) dagli uomini. 

Saffo e il suo tiaso: raffinato, di nicchia, diremmo oggi, destinato a poche fanciulle elette, di famiglia aristocratica. Non mi stupirebbe: non pretendiamo una democrazia ante-litteram!

Immagino, ovviamente sulla base di quei frammenti che  a noi rimangono, fanciulle belle (sui 14 anni o poco più) alle quali Saffo dava lezioni di danza, cultura, eleganza, utile al momento opportuno. Prima di chiudersi nel gineceo, queste giovani potevano essere istruite da un'autentica insegnante di belle maniere, magistra elegantiarum. Saffo conoscente e colta, poteva ben offrire un modello di comportamento. Ma chi avrà avuto accesso al suo tiaso? Quali famiglie le avranno, con giusta fiducia, affidato le loro korai? Certamente, a loro volta, famiglie dell'aristocrazia, famiglie illuminate.

E un'emozione mi prende ogni volta che parlo di lei...

Difficile sentirsi degn* di commentare, ricordare episodi della vita di Saffo, ineguagliabile per il suo coraggio, in una società in cui la casa era suddivisa nella parte riservata agli uomini, e situata al pian terreno per meglio controllare movimenti e azioni, entrate ed uscite di ospiti, etc., e nel gineceo già citato, ove le donne della casa rimanevano rinchiuse. Questa piccola repubblica delle donne, dove Saffo era umile regina, spesso disposta ad una sorta di proskynesis di fronte all'avvenenza, è davvero un unicum, nell'antica Grecia. I contemporanei, e soprattutto coloro che vennero dopo, non le perdonarono il successo, e il desiderio (appagante e appagato) di libertà. Pensiamo solo agli alessandrini, come si diceva, che idearono il mito (falso) di Saffo brutta e umiliata, rifiutata dal bel Faone. Il colto e giovane Leopardi utilizza questo mito raro, peregrino (come ci attendiamo dagli alessandrini) a proprio uso: la natura matrigna e malvagia condanna l'umanità a desideri che non hanno mai fine, e che in alcuni casi, poiché sono del tutto irrealizzabili, portano al suicidio: l'amore appassionato di una creatura brutta, indesiderabile, verso un'altra creatura, bella e amabile; ne consegue un rifiuto umiliante, mentre il desiderio non si spegne (parliamo, infatti, di giovani). Ma passiamo oltre, con un occhio di riguardo per Leopardi, che perdoniamo.

Saffo appassionata, e forse riamata, osserva con malinconia la luna, le stelle, e dorme sola. Appassionata e scossa violentemente da Eros come da un vento implacabile, osservava una fanciulla innamorata di un ragazzo. Come tutti sappiamo, ella è gelosa e, di fronte al sorriso che la giovane rivolge al ragazzo cui è promessa, avverte la sintomatologia dell'amore in tutti gli effetti più evidenti(che brutta parola sintomatologia! Ma come altrimenti definirla?) . Arrossisce, impallidisce, percepisce la propria traspirazione, si sgomenta. Invidia la persona alla quale la giovane amata riserva la propria attenzione, il proprio sorriso. Non riesce a pronunciare parola: è emozionata, bloccata da un sentimento che non può esprimere. Saffo è gelosa del ragazzo a cui la giovane da lei amata riserva le proprie attenzioni. Il buon Caio Valerio Catullo, circa cinquecento anni dopo, si immedesimerà nelle emozioni della colta e appassionata Saffo, catturato dalle stesse emozioni, ma nei confronti di una donna. Non fraintendiamo: Catullo, la cui sessualità era forse ambigua, rivolgeva le proprie attenzioni tanto alle donne quanto ai giovani schiavi, ad esempio (era di famiglia ricca). Lo spirito saffico non perdona, ed egli chiamò con il soprannome di Lesbia la sua amata (Clodia, sfrenata nelle passioni). E' talmente evidente l'ammirazione nei confronti di Saffo la bella, coronata di viole, da utilizzare l'aggettivo derivato dal toponimo Lesbo per questa donna disprezzata, accusata delle peggiore infamie dal maschilista Cicerone. Del cui giudizio o pregiudizio morale, al nostro Catullo, nulla importava.

Arrivo, ora, a quanto volevo pervenire, con questo mio scritto. E' brutto l'aggettivo lesbica. Non è eufonico, per nulla, in lingua italiana. Accettabile in francese, in quanto suona più dolce, vi confermo: la lingua italiana dovrebbe mutare l'aggettivo in saffica. Percepite come suona questa parola? Più dolce e bello, quasi un sospiro. Il sospiro di Saffo, completamente donna, e indipendente dall'opinione altrui, a tal punto da scegliere da sé, di fronte alla poco gentile ipocrisia dei maschi, un destino difficile, ma vincente, anzi vittorioso, per oltre duemilacinquecento anni.

Una bella classetta (racconto)

  Una bella classetta tutta di femmine Dai tempi dell'asilo sino al termine della scuola media, Agata dovette frequentare una scuola di...