lunedì 31 ottobre 2022

G.Pascoli, il giorno dei morti (Santi4)

 IL GIORNO DEI MORTI


Io vedo (come è questo giorno, oscuro!),
vedo nel cuore, vedo un camposanto
3con un fosco cipresso alto sul muro.

E quel cipresso fumido si scaglia
allo scirocco: a ora a ora in pianto
6sciogliesi l’infinita nuvolaglia.

O casa di mia gente, unica e mesta,
o casa di mio padre, unica e muta,
9dove l’inonda e muove la tempesta;

Non è certo l'unica poesia in cui troviamo tratteggiato un camposanto, ma qui assume tinte un po' forti, dove non vi è soltanto tristezza, o malinconia, o nostalgia verso chi non c'è più. Il paesaggio ricordo la poesia sepolcrale. L'aldilà lo attrae e lo spaventa.  Il camposanto è tuttavia la casa della sua famiglia.


(...)

o camposanto che sì crudi inverni
hai per mia madre gracile e sparuta,
12oggi ti vedo tutto sempiterni

e crisantemi. A ogni croce roggia
pende come abbracciata una ghirlanda
15donde gocciano lagrime di pioggia.

Sibila tra la festa lagrimosa
una folata, e tutto agita e sbanda.
18Sazio ogni morto di memorie, posa.


Le ghirlande aggrappate alle croci sono grevi di pioggia, ma la pioggia, nel camposanto, è fatta di lacrime. Anche la festa è "lagrimosa", poiché si tratta del giorno in cui si commemorano i Defunti. Sulle povere tombe imperversa il vento, che scuote senza pietà le funebri corone  grondanti. E questi morti, in che senso sono "sazi"? Forse di vita, alla quale non sono strappato troppo presto, come invece è accaduto ai familiari di Pascoli: i quali, invece, non cessano di formare una cerchia stretta in un  lugubre abbraccio. I familiari di Pascoli, anche in morte stanno vicini, stretti, uniti come dev'essere una famiglia, stretti come gli uccelli nel nido. Così non temono il cipresso che "geme" lugubre sotto i colpi del vento e della pioggia. L'amore reciproco sembra vincere le intemperie, ed essi si sentono come attorno al focolare di casa. Il vincolo familiare ininterrotto permette loro di non temere nulla. La famiglia è la forza, ci ricorda il poeta .


Non i miei morti. Stretti tutti insieme,

insieme tutta la famiglia morta,

sotto il cipresso fumido che geme,


stretti così come altre sere al foco

(urtava, come un povero, alla porta

il tramontano con brontolìo roco)


piangono. La pupilla umida e pia

ricerca gli altri visi a uno a uno

e forma un’altra lagrima per via.


Piangono, e quando un grido ch’esce stretto

in un sospiro, mormora, Nessuno!...

cupo rompe un singulto lor dal petto.


Levano bianche mani a bianchi volti,

non altri, udendo il pianto disusato,

sollevi il capo attonito ed ascolti.


Posa ogni morto; e nel suo sonno culla

qualche figlio de’ figli, ancor non nato.

Nessuno! i morti miei gemono: nulla!


I poveri morti di Pascoli non hanno timore di nulla, ma - come il poeta - piangono un pianto incoercibile: piangono la propria sorte, ma fanno rivivere abitudini familiari, come quando cullano figli e nipoti non nati.




Ancora su La tovaglia (Santi 3)

(...)

Pensa a tutto, ma non pensa a sparecchiare la mensa. Lascia che vengano i morti, i buoni, i poveri morti.

Oh! la notte nera nera, di vento, d'acqua, di neve, lascia ch'entrino da sera, col loro anelito lieve; che alla mensa torno torno riposino fino a giorno, cercando fatti lontani col capo tra le due mani.

Dalla sera alla mattina, cercando cose lontane, stanno fissi, a fronte china, su qualche bricia di pane, e volendo ricordare, bevono lagrime amare. Oh! non ricordano i morti, i cari, i cari suoi morti!

Pane, sì... pane si chiama, che noi spezzammo concordi: ricordate?... 

(...)

Questa venuta dei morti è paurosa, ma la fanciulla è compassionevole. I morti non ricordano: sembra che il misterioso passaggio li abbia completamente scissi dalla vita che hanno vissuto. Cercano, tuttavia, di trovare qualche traccia del loro passato, certi fatti lontani. 

Questi tristi morti evanescenti, sia pure nella concretezza del desco familiare, mi ricordano le anime incontrate da Odisseo nella sua discesa nell'oltretomba: ombre nell'opacità di un luogo che non procura loro alcuna felicità. Ma queste anime, richiamate dalla presenza dell'eroe, non conoscono il presente; così pure i dannati danteschi, che il loro passato lo ricordano assai bene.



G.Pascoli, La tovaglia (Santi 2)

 G.Pascoli,  LA TOVAGLIA


Le dicevano: - Bambina! che tu non lasci mai stesa, dalla sera alla mattina, ma porta dove l'hai presa, la tovaglia bianca, appena ch'è terminata la cena! Bada, che vengono i morti! i tristi, i pallidi morti!

Entrano, ansimano muti. Ognuno è tanto mai stanco! E si fermano seduti la notte attorno a quel bianco. Stanno lì sino al domani, col capo tra le due mani, senza che nulla si senta, sotto la lampada spenta.

È già grande la bambina; la casa regge, e lavora: fa il bucato e la cucina, fa tutto al modo d'allora.


I morti sono stanchi e tristi, chiedono riposo, un tavolo; gli adulti temono le presenze dall'aldilà. La bambina, cresciuta, non teme i suoi poveri morti. Anzi, lascia tutto in ordine, apposta per loro.

La tavola apparecchiata (Santi 1)

Una bella poesia di Pascoli ci ricorda che, secondo un'antica tradizione contadina, la notte tra i Santi e i Morti si doveva sgomberare il tavolo da tutto, perché la presenza stessa della tovaglia era un invito, un richiamo, per i morti, ad accedere alla casa in cui vissero. E i vivi temevano atrocemente l'arrivo dei morti, e si sbrigavano a rendere la tavola un po' meno invitante per gli indesiderati ospiti. Eppure, ci avverte il poeta, è una paura ingiusta, persino offensiva, chiudere l'uscio in faccia ai "buoni...poveri morti". La poesia si intitola La tovaglia e ci presenta le evanescenti e un po' tristi creature, come parte irrinunciabile della famiglia. È chiaro che il poeta si riflette nella fanciulla affettuosamente sollecita verso i defunti; del resto, la famiglia di Pascoli è oltre le "invisibili porte", e pertanto, la vita dei suoi amati familiari defunti è la sua vera vita. Il loro mondo misterioso, sotterraneo, lo attrae, come lo richiama il ventre che lo ha custodito: è la terra in cui giace la madre, la madre fatta terra che ancora lo invoca a sé, con i suoi "canti di culla", irresistibili, per il poeta, come canti di sirene.

sabato 22 ottobre 2022

Sono coniglietti!

 Troppe volte si sente dire "Mio figlio vuole un coniglietto...glielo regalerò per Natale (o altra occasione)". Questa frase suona come una vera e propria minaccia per chi ama i conigli. Notoriamente i bambini sono capricciosi e non si accontentano facilmente; un animaletto è visto come qualcosa di meraviglioso, nuovo, vivo. Ma si sa, il povero coniglio, una volta a casa, cercherà di scappare, più che giustamente! Il bambino, tentando di acchiapparlo, potrebbe ricevere un bel morso. Peggio ancora: supponiamo che il povero coniglio, terrorizzato, si lasci passivamente prendere in braccio; ebbene, basta uno scatto improvviso, un niente, ed ecco che la persona che ha in braccio il coniglietto viene colta di sorpresa e, di solito, l'animaletto cade a terra. In questo caso, potrebbe farsi molto male, ad esempio fratturarsi la colonna vertebrale. Quale sarà la sua fine, presso una famiglia che considera un essere vivente come un oggetto da regalare?

Nella migliore delle ipotesi, supponiamo, il coniglietto riuscirà a scappare sotto un mobile. Poiché la cosa si ripeterà, il bambino si stancherà facilmente del nuovo compagno. Se poi i genitori lo metteranno in una gabbia, come è probabile quando si acquista un animale senza averne la minima conoscenza, il povero coniglio trascorrerà il suo tempo senza poter saltare né correre, mangiando probabilmente alimenti dannosi per la sua salute (chi non si informa, non si informa del tutto). Il bambino, cui è stato destinato come dono, si annoierà a guardarlo. Il coniglietto rimarrà solo, e arriverà il momento in cui i proprietari non si accorgeranno quasi più della sua presenza. Ecco un'altra conseguenza della disinformazione: credere che un animaletto, per quanto piccolo e silenzioso, non ami la compagnia.

Ma io voglio soffermarmi ancora sul coniglio acquistato, incautamente, come dono, nell'ignoranza più completa delle sue esigenze. Qualcuno pensa ancora che i conigli si nutrano prevalentemente di carote! Assurdo. Il coniglietto non dovrà mangiare pane, biscotti, cereali , semi e porcherie varie vendute come snack,spesso colorati. Il coniglietto dovrà mangiare dell'ottimo fieno e della verdura adatta a lui; attenzione: solo quelle adatte a lui, come finocchi, scarola, sedano, indivia, catalogna, etc. Pochissima frutta. Gli avanzi di verdura e frutta dovranno essere tolti e buttati. Non bisognerà badare a spese, per la sua alimentazione; e, in generale, i coniglietti comportano notevoli spese. 

La famiglia che ha acquistato il coniglietto, forse lo porterà da un veterinario. Se questo è onesto, informerà che è necessario un veterinario per esotici, specializzato cioè nei cosiddetti "esotici". Ma, purtroppo, le cose non vanno sempre in questo modo. 

Dicevo che il coniglietto è impegnativo: dev'essere vaccinato, sterilizzato, controllato spesso, perché nei conigli le malattie hanno un decorso rapidissimo. Il blocco intestinale gli ascessi sono tra i problemi più frequenti, di cui una persona inesperta potrebbe non accorgersi. 

L'esperienza si acquisisce, è vero, ma non è possibile portare a casa un animaletto senza le conoscenze di base. Ci sono i manuali e c'è internet. Fate attenzione alle date di pubblicazione, cercate pagine e articoli recenti. 

Torniamo alla famiglia di cui sopra: prima o poi verrà l'estate, e con l'estate le vacanze, le ferie... Non vorrei andare oltre, ma la maggior parte degli abbandoni avviene da parte di persone che hanno acquistato il coniglietto, senza prima riflettere. Si può acquistare d'impulso qualsiasi cosa, ma NON un essere vivente. 

E i conigli abbandonati sono spesso quelli comprati in un negozio, non quelli adottati. Infatti, se adotti l'animaletto, tra gli accordi scritti ci sarà anche quello relativo all'eventuale restituzione all'associazione da cui proviene il coniglietto adottato.

Un elemento di svantaggio non da poco, è il prezzo di vendita presso i negozi, o -molto peggio!- le fiere. Quel prezzo attira, e fa credere che il coniglietto ("tanto carino") sia anche poco impegnativo; cosa che, come abbiamo visto, è ben lontana dalla realtà.

venerdì 14 ottobre 2022

gelati di zucchero e piccoli biberon

 Non posso evitare di rievocare un tipico dolcetto che si poteva vedere in ogni vetrina di latteria. Quando le latterie erano specializzate nella vendita del latte, la vetrina era spesso riempita, nel ripiano in fondo, con dolci vari e confezioni di biscotti. C'erano sovente dei coni da gelato, sormontati da nuvolette bianche, rosa, verdoline, gialle, azzurre, di consistenza solida, ma leggera, tipo meringa. Erano "gelati" di zucchero, ma con il cono autentico, di cialda leggera e friabile. Il gusto era inconfondibile, ma non riuscirei a descriverlo con esattezza: una reminiscenza è forse nel mashmallow; certamente la chimica avrà fatto la sua parte.

Altro prodotto-cult della nostra infanzia, dei bottiglini di plastica,  alti poco più di 10 cm, sormontati da un beccuccio, una specie di biberon di cui doveva tagliare l'estremità. Contenevano una sorta di sciroppo colorato, dolce, di gusto indefinibile ma buono. Sono le mie Madeleine.

Ave, Roma

 Merendine 2. Altre memorie mangerecce

Se gli Ave Roma, poi Urrà Saiwa, erano particolarmente appetibili, perché ricchi di crema e con una gustosa copertura di cioccolato, non dimentichiamoci dei Buondì Motta, tutt'ora sulla cresta dell'onda con tante varianti, a quei tempi più buoni, almeno in apparenza, forse perché più ricchi di grassi. Anche la Fiesta aveva una grossa fetta di accaniti consumatori, e si trovavano alcune varietà: con la crema di nocciola, ad esempio, oltre alla celeberrima e apprezzatissima arancia.  ma qui ed ora vorrei ricordare i mitici Tin Tin: si poteva scegliere tra vari gusti: cacao, nocciola, albicocca e persino caffé. ma ciò chge suscitava - Penso - un grande interesse in noi bambini degli anni Settanta, erano i soliti ricchi premi messi in palio qualora si fosse trovata la magica scritta "Hai vinto!". Si apriva la merendina con emozione, cercando di non strappare l'involucro. Ovviamente, la scritta era sempre la solita: "Non hai vinto! Riprova!" con la variante "Sarai più fortunato! Riprova!". Ovvio che si ritentava la sorte, decine di volte, nella folle speranza di vincere un premio davvero strabiliante: una fiammante BICICROSS di colore arancio scuro. L'immagine, sulle pagine pubblicitarie dei giornalini, la mostrava con il suo schienale alto, il manubrio più grande di quello di una comune bici, e poi delle grosse molle, appunto, per il cross. La stessa pubblicità mostrava un bambino che, fiero del suo cavallo d'acciaio, portava dietro a sé una bambina. L'immagine mi attraeva. Oggi, chiaramente, un simile mezzo di trasporto-giocattolo sarebbe ritenuto enormemente pericoloso per l'incolumità dei bimbi.

lunedì 10 ottobre 2022

 Vogliamo parlare di merendine anni Sessanta e Settanta? Possiamo rinfrescarci la memoria sfogliando un giornalino di quegli anni, oppure, un po' più prosaicamente, possiamo reperirle tramite il web. Non posso che ricordare con affetto e gola gli ottimi Urrà Saiwa. Erano buoni biscottoni di wafer, cremosi e ricoperti di cioccolato fondente. Erano la merendina per eccellenza, in quegli anni. Discendevano dagli antichi "Ave Roma", che dietro la roboante retorica del nome, dentro l'involucro dorato, erano lo stesso tipo di merenda: wafer e cioccolato fondente. 



  In pasticceria con Guido Gozzano

il Caffé Baratti, nel centro di Torino, è luogo antico e suggestivo, dai profumi invitanti, che fa rivivere l'emozione di ambienti eleganti e raffinati e tranquille conversazioni pomeridiane della Belle Epoque. È il caffè in cui si recava abitualmente  Guido Gozzano.


Così, oggi noi vogliamo immaginare il nostro Guido, seduto al suo tavolo preferito, mentre sorseggia un caffé, ed il suo sguardo si sofferma sulle belle dame torinesi, di cui il poeta osservava, con ironica dolcezza, il comportamento: l'attenzione nel selezionare la pasta, il gusto con cui divorano la preda, il gesto imbarazzato di ripulire le dita dalla crema; tutto ciò faceva tornare bambine queste eleganti e distinte giovani signore. Sovente Guido ritrae donne e fanciulle in situazioni piuttosto insolite: mamma e figlia in bici, una ragazza che si risveglia circondata da farfalle liberate dalla crisalide appena schiusa, una giovane donna che si veste e si adorna con un abito e una collana di cinquant'anni prima per far rivivere Carlotta, l'amica di Nonna Speranza, quando i suoi sogni erano ancora trilustri.  

La poesia è veramente delicata, garbata e sorridente: si potrebbe dire che profuma di zucchero a velo e cioccolatte.


Le golose


Io sono innamorato di tutte le signore

che mangiano le paste nelle confetterie.

Signore e signorine -
le dita senza guanto -
scelgon la pasta. Quanto
ritornano bambine! Perché niun le veda,
volgon le spalle, in fretta,
sollevan la veletta,
 divorano la preda.10
5
C’è quella che s’informa       
pensosa della scelta;
quella che toglie svelta,
né cura tinta e forma.

L’una, pur mentre inghiotte,15
già pensa al dopo, al poi;
e domina i vassoi
con le pupille ghiotte.


un’altra - il dolce crebbe -
muove le disperate
20


bianchissime al giulebbe                                                         
dita confetturate!

Un’altra, con bell’arte,
sugge la punta estrema:
invano! ché la crema
esce dall’altra parte!

  
25
L’una, senz’abbadare
a giovine che adocchi,
divora in pace. Gli occhi
altra solleva, e pare
30
sugga, in supremo annunzio,



non crema e cioccolatte,
ma superliquefatte
parole del D’Annunzio.

Fra questi aromi acuti,35
strani, commisti troppo
di cedro, di sciroppo,
di creme, di velluti,

di essenze parigine,
di mammole, di chiome:

oh! le signore come
ritornano bambine!

Perché non m’è concesso -
o legge inopportuna! -
il farmivi da presso,

baciarvi ad una ad una,

o belle bocche intatte
di giovani signore,
baciarvi nel sapore
di crema e cioccolatte?


Io sono innamorato di tutte le signore
che mangiano le paste nelle confetterie.














venerdì 7 ottobre 2022

Conoscete Andrée?
Salomon August Andrée era un esploratore, che nel 1897 volle raggiungere il polo, servendosi di un velivolo; non fece mai ritorno, e la sua figura divenne leggendaria.
Giovanni Pascoli gli dedicò un componimento che, come in altri, raccolti in Odi e Inni, realizza un perfetto connubium tra modernità e senso del mistero.

No, no. La voce che giungea per l’aria
fosca, da terra, come gridi umani,
3era lo strillo della procellaria,

ch’ama li scogli soli, gli uragani
inascoltati. O forse (era di bimbi
6quasi un guaire?), o forse di gabbiani.

Un suono s’alza qua e là di limbi
queruli nell’estrema ombra inaccessa:
9sono i gabbiani; dicono. O colimbi

forse? o la skua? Forse la skua. Quand’essa
svola sui ghiacci, esce da mille nidi
12un pianto acuto; chè, con lei, s’appressa

la morte. O vani, muti, intimi gridi
tuoi, del tuo cuore...? Udiva anche il gabbiere,
15
e nell’orecchio del gabbier tu fidi...

Non è straordinaria questa presenza dei nomi di alcuni volatili che amano i climi polari, abitatori solitari dei ghiacci eterni? In realtà, l'utilizzo di una terminologia precisa e, direi, scientifica, appare in numerose opere, ed è un elemento di grande modernità, introdotto  da Pascoli.
Qui veniamo avvolti da suoni misteriosi, e nelle poesia di Pascoli il mistero è unito alla morte.
E il linguaggio arcano, indecifrabile dei morti è evocato dai canti di questi volatili, anzi, dalle loro grida, dal loro pianto acuto; gli uccelli dei ghiacci, in particolare la skua,  appaiono qui gli araldi della morte che si approssima, e il volo e i pianti dai mille nidi, dove il nido non corrisponde alla consueta immagine-simbolo, ma piuttosto a una minaccia. 


non era Andrèe. Centauro alla cui corsa
la nube è fango e il vano vento è suolo,
22egli volava verso la Grande Orsa.

E l’alche prima videro il suo volo;
poi più nessuno; sì che al fin non c’era
25che il suo gran cuore che battea sul polo.

Però ch’ei giunse al lembo della sera,
e su l’immoto culmine polare
28stette, come su rupe aquila nera.

Ardea la stella pendula del mare,
lampada eterna, sopra la sua testa,
31e pareva nell’alta ombra oscillare.

Vide in suo cuore fissi egli, da questa
onda e da quella d’ogni mar selvaggio,
34di tra la calma, di tra la tempesta,



oh! mille e mille e mille occhi, nel raggio
che ardeva a lui sul capo; ed, in un punto,
37a quelli occhi che vide in un miraggio

subito, immenso, annunziò: Son giunto!


André è solo, come un Centauro, come un Titano, come l'Ulisse di Dante; ma non vuole ritornare al mondo. L'aquila, la tempesta, la stella che arde, eternamente accesa, sul suo capo, fanno emergere nel moderno eroe l'eroe romantico che sfida il mistero dell'infinito: trionfatore sull'impossibile e sull'inarrivabile, può esclamare,  Son giunto!


Allor, sott’esso, grave sonò l’inno
degl’iperborei sacri cigni: un lento,
41interrotto, d’ignote arpe tintinno;

un rintocco lontano, ermo, tra il vento,
di campane; un serrarsi arduo di porte
44grandi, con chiaro clangere d’argento.

Nè mai quel canto risonò più forte
e più soave. Dissero che intorno
47sola, pura, infinita era la morte.


Poi, il canto dei cigni, un suono cristallino d'arpa, e un clangore di metallo, di campane, di porte che si chiudono, evidentemente per sempre, per l'eroe. Come non ripensare alle "porte invisibili" de L'Assiuolo, che recano in una dimensione altra, vicina ma intangibile? Immaginiamo, dunque, un suono di ghiaccio, di onde gelate, di vento, e lo stridio di uccelli marini. Finalmente, Andrée entra in contatto con l'infinito, con la morte, contro la quale, ancora, sembra ergersi, con slancio di superuomo, di uomo alato, insofferente verso i limiti spaziotemporali dell'uomo comune. L'altezza sovrumana, la solitudine assoluta gli fa percepire la propria grandezza, ed egli si sente  Dio. Come, tale, immortale: tra i suoni che si spengono e la stella, lampada di tomba, che si accende, la morte silenziosa e solitaria scende sul  grande vichingo.


E venne, all’uomo alato, odio del giorno
che sorge e cade, venne odio del vano
50andare ch’ama il garrulo ritorno.

Egli era in alto, al colmo: era l’umano
fato a’ suoi piedi. Andrèe si sentì solo,
53si sentì grande, si sentì sovrano,


Dio! Già moriva l’inno dello stuolo
sacro in un canto tremulo di tromba.
56Poi fu silenzio. L’astro ardea sul polo,

come solinga lampada di tomba.


iii

martedì 4 ottobre 2022

Ligure bellezza

 Uno degli splendidi Racconti di Guy de Maupassant, intitolato Le sorelle Rondoli. Due giovani amici, un po' annoiati e abbastanza dotati economicamente, intraprendono un viaggio in Italia: doveva essere una vacanza divertente e avventurosa per entrambi. Ma ecco che sul vagone in cui essi siedono , mentre percorrono la costa della Liguria, sale una giovane donna, evidentemente di umile estrazione sociale, e neppure troppo bella nei tratti del viso. La ragazza è di fronte a loro, e i due giovani cercano di attaccare discorso e, dopo averle offerto un lauto pranzo a base di pollo arrosto e fragoline di bosco, nonché altra frutta, il tutto ordinatamente disposto su un tovagliolo posato sul sedile del treno, riescono finalmente a fare breccia e la ragazza pronuncia, come risposta alle loro domande -estremamente generiche - una o due parole. Nient'altro. I due sono attratti dalla ragazza, più per il suo atteggiamento distaccato se non scontroso, che per la sua bellezza: infatti, Maupassant la definisce volgare. Poiché il concetto di bellezza cambia, si evolve o si involve attraverso i tempi, potrei pensare che, oggi, questa ragazza dalla bocca un po' troppo grande non dispiacerebbe. Il viaggio prosegue sino a Genova, dove la ragazza scende insieme ai due giovani, e inizia così la vacanza di due settimane, che trascorreranno interamente nel capoluogo ligure, sebbene si fossero ripromessi di visitare diverse. regioni d'Italia. Il percorso lungo la costa ligure è suggestivo e piuttosto triste per chi è consapevole dell'attuale stato della stessa. Leggendo le parole di Maupassant, non sembra di percepire il profumo dei fiori, in particolare delle rose, e del mare? Non sembra di vedere spiagge, promontori e rocce a picco? Poco o nulla rimane, di allora. E ciò che è stato miracolosamente risparmiato, è mutato completamente, con lo stravolgimento causato da cittadine e paesi cementificati, spiagge trafugate per ampliare la terraferma e costruirci fabbriche e cantieri.

Dal Cinquecento (vedi Giustiniani) la Liguria era considerata una "Conca d'Oro", produttrice di arance e agrumi, come la Sicilia, nonché di fiori che venivano esportati in tutta l'Europa occidentale. Nel suo libro sulla peste del sec. XVI, il frate agostiniano Padre Antero Micone descrive Sampierdarena e Cornigliano come un paradiso terrestre...


La cameretta

 

L’adolescente e la sua cameretta


Quasi tutti gli adulti, genitori, insegnanti, psicologi, educatori, etc., sono oggi in allarme crescente per l’utilizzo dei dispositivi elettronici e il rischio di dipendenza che essi comportano, rischio ormai segnalato come dato di fatto. Data la vastità dell’argomento e, soprattutto, la varietà dei possibili dispositivi in uso, mi limito all’argomento “smartphone”.

Vorrei spezzare una lancia in favore, anche se con riserva, di tale utilizzo.

Il cellulare è la “cameretta” dell’adolescente di oggi, il suo spazio privato, una sorta di rifugio, come fosse un luogo in cui isolarsi, chiudendo a chiave una porta virtuale per evitare interferenze da parte degli adulti.

Chiudersi a chiave è proprio di chi non vuole essere disturbato, ma anche di chi vuole agire senza le evidenti difficoltà che comporta la presenza e la vigilanza dell’adulto, anche per quanto riguarda la possibilità di esprimere liberi le proprie emozioni e le proprie paure, oltre a sentimenti ed altro.

Noi, genitori e insegnanti di oggi, avevamo le nostre fotografie che tenevamo in parte nascoste in qualche libro, tra la sovraccoperta e la copertina, avevamo un diario segreto, che talvolta lasciavamo leggere a qualche amica o amico in cui riponevamo la nostra fiducia. Custodivamo questo diario (che poteva avere un lucchetto, apribile con qualsiasi forcina da capelli) in fondo a un cassetto, sotto le magliette e i blue-jeans. Avevamo un album dei ricordi, con disegni e dediche. Avevamo, soprattutto, lettere e cartoline, anche queste – se era il caso – nascoste. Lettere che potevano custodire un fiore essiccato, molto romantico. Avevamo ricordi che ci piaceva conservare, quali biglietti dell’autobus o del treno, tovagliolini di carta con su scritto “ti amo” o “alla mia migliore amica” (vale tutt’ora la frase “siamo migliori amiche) e qualche disegno, qualche adesivo che allora si usava collezionare. Avevamo anche libri la cui lettura sembrava, allora, riprovevole.

Quando un genitore entrava di soppiatto, in nostra assenza, nella nostra cameretta, alla ricerca del diario, fedele custode dei nostri segreti, quando questo spazio privato veniva violato, così come le nostre pagine dove i nostri pensieri scorrevano liberi giorno per giorno, ci sentivamo morire, ci arrabbiavamo, ritenendo che non avremmo più potuto avere nulla di nostro che non venisse scoperto e giudicato.

Come ci saremmo sentite, che cosa avremmo scritto e soprattutto come avremmo descritto il nostro privato, se qualcuno ci avesse osservato dall’alto della sua autorità? Oppure, se avessimo saputo che le nostre pagine sarebbero state visionate dai genitori?

Sto pensando alla spontaneità, al senso di libertà che percepivamo scrivendo i nostri pensieri, le nostre esperienze e la vita quotidiana. Se avessimo avuto la consapevolezza di una supervisione, avremmo scritto nel modo più innocuo e ci saremmo posti molti limiti; avremmo forse scritto secondo quella che ritenevamo la nostra immagine più rassicurante, quella che gli adulti si aspettavano da noi.

Guardavamo i nostri film e telefilm, seguivamo quei pochi canali che trasmettevano I primi videoclip, ascoltavamo la nostra musica di solito poco tollerata,dagli adulti, proprio come accade anche oggi (quanti di noi apprezzano rap e trap?).

Oggi, gli smartphone hanno acquisito questo ruolo, per i nostri alunni, per i nostri adolescenti. C’è W.A. (chi ha detto che lo usano meno di prima?) ci sono i loro virtuali album di foto, c’è instagram che solo i followers possono seguire, mentre FB non va più di moda: sono gli adolescenti stessi a sostenere che ormai lo utilizzano solo i cosiddetti boomer ; in realtà, qualche ragazza/ragazzo lo usa ancora.

Inoltre, attraverso il cellulare guardano film e video, ed ascoltano musica.


Non dobbiamo poi dimenticare che, durante l’emergenza covid 19, numerosissimi studenti si sono avvalsi del cellulare per collegarsi alla DAD, per svolgere i compiti e per studiare; spesso ciò era dovuto al fatto che la famiglia non era in possesso di un pc o di un tablet; talvolta lo strumento era messo in comune tra più componenti della famiglia. Senza contare che il cellulare era divenuto l’unico mezzo attraverso il quale mettersi in contatto con gli amici e con le persone che non appartenevano al ristretto nucleo familiare: altrimenti l’isolamento sarebbe stato totale.

Anche l’utilizzo dei “moduli” da parte di numerosi insegnanti – ma non tutti, ovviamenteche si protrasse ben oltre il Covid e continua tutt’ora, con le lezioni in presenza, hanno in qualche modo “abituato” gli studenti ad usare i cellulari in classe, a scopo didattico.

Sono alcuni motivi che si sommano ad altri, e che rendono difficoltoso, talvolta, staccare i ragazzi dai loro smartphone.



 

Babette

Lui, così particolare per il suo comportamento da cucciolo anche nella vecchiaia, l'avevamo chiamato Babette, perché ce lo avevano consegnato come una femmina, mentre era un dolcissimo maschietto. Aveva i tratti tipici del persiano, le sue zampotte erano corte e robuste, lo stop poco sotto gli occhi, le orecchie piccole, una folta pelliccia color budino al caramello, variegato biscotto. Era dolcissimo, come carattere e come tratti del viso. Nonostante l'età, quando saltava era come se volasse: ad un certo punto del salto c'era un plateu con le gambe posizionate come se fosse a terra; nell'atterrare non sentivi alcun rumore, neppure un fruscio. Ed era un folletto, era un bambino: lo cullavo e nei suoi occhi vedevo quel mistero che si legge nello sguardo dei neonati. Rimaneva in braccio, la sera, e ci rilassavamo, insieme. Potrei dire che mi contemplava. Il suo legame nei miei confronti era straordinario: mi seguiva ovunque, soprattutto quando mi riposavo: con la sua consueta leggiadria, si posava sulla mia schiena o sulla mia pancia. Se mi posizionavo su un fianco, con le sue manine mi chiedeva di voltarmi, in modo da poter riposare su di me.

Nel negozio in cui lo prendemmo 13 anni fa, non volevano consegnarcelo, perché aveva una micosi diffusa. Ma io lo volli portare a casa ad ogni costo: non mi interessava la micosi, gliel'avrei curata, e così è stato. Inoltre, un suo dentino era posizionato obliquamente (ma non gli diede alcun problema, quando mangiava). Non so che fine avrebbe fatto, non so se lo avrebbero acquistato. Io lo trovavo adorabile e, quando lo portai a casa, piccolo piccolo, con una codina sguarnita di pelo,   la stessa sera lo portai a dormire con me e lui mi si posizionò immediatamente tra il collo e il mento, dove si addormentò beato, facendo le fusa e la pasta, come continuò a fare per tutta la sua vita.

Un po' per il suo aspetto, un po' per l'amore immenso che provavo per lui, mi sembrava che non sarebbe diventato mai anziano, e che sarebbe vissuto per sempre, come tutte le persone che amiamo, come i nostri cari che tutti vorremmo immortali.






Una bella classetta (racconto)

  Una bella classetta tutta di femmine Dai tempi dell'asilo sino al termine della scuola media, Agata dovette frequentare una scuola di...