giovedì 28 settembre 2023

  1. Era la fine degli anni Settanta, e ancora i ragazzi si affollavano in fondo alla scalinata delle Caravelle, luogo che ancora oggi suscita memorie, nei ragazzi/e di un tempo, studenti del Liceo D'Oria. Ogni volta che passo di lì, la memoria corre, ed è difficile non ricordare, non commuoversi. Non so se gli studenti che oggi affollano le aule di quella scuola delle mie prime paure ed emozioni sentano/percepiscano quello che c'è stato, in un passato ormai remoto. Le classi arrivavano alla sezione N, in quarta ginnasio, ossia il primo anno. Per un Classico, oggi è un numero da fantascienza, penso. Alla fine della quarta ginnasio, c'era la scrematura, e le classi arrivavano più o meno alla H. Non dimenticate che, anche lì, vigeva quella gerarchia delle classi, per cui le migliori erano la A e la B. Ciò accadeva negli anni Settanta, ma non credo che molto sia cambiato e, del resto, non mi riguarda. Ma è' più carino ricordare che, in quei tempi, tanti, tantissimi ragazzini affollavano lo spazio di fronte alla scalinata. Tutti gli studenti, tranne i ritardatari recidivi, erano già lì, almeno dalle sette e mezza, quando il cancello e il portone della scuola era chiuso, e nessuna situazione particolare l'avrebbe fatta aprire. I ragazzi erano seduti sulle murette, dove c'era spazio, o chiacchieravano in piedi, a piccoli gruppi. C'erano, naturalmente, anche i fidanzatini un po' in disparte. E si fumava, si fumava. Queste memorie di derivano dall'ascolto di "Compagno di scuola" di Venditti, dove l'ambiente è molto precedente rispetto alle mie personali esperienze di liceale, ma è del tutto simile. Vedevi tanti ragazzi, al suono della prima campana e al contemporaneo aprirsi del grande cancello di ferro nero che portava nel cortile della scuola, salire i larghi gradini di mattoni rossi; si continuava a fare chiasso e a fumare. Abiti, scarpe, montature d'occhiali erano così diverse da quelle degli adulti di allora; i ragazzi di allora li riconosci  in quelli di oggi, nell'affermare la propria individualità, e nell'affrancamento dai genitori e dalla loro volontà. Negli anni '79-'80 la moda per i ragazzi era diversa, ma era pur sempre moda. La libertà non si esprimeva attraverso jeans strappati o piercing, ma piuttosto attraverso la possibilità, nell'area scuola, di fumare quanto ci pareva e piaceva, cosa che da molto tempo non esiste più: in bagno, nei corridoi ed anche in classe, durante l'intervallo. Nella famosa "ora di religione", cantata anche da Venditti (...quando tutto il mondo sembra buono, anche il professore), uscivamo a gara dall'aula, per interminabili soste in bagno, che terminavano con la campanella di fine ora. Nessuno ci fermava ed eravamo molto più liberi di oggi, in determinate situazioni scolastiche. Anche il professore fumava in classe, e a noi sembrava normalissimo. Fumava il prof, fumavamo noi. Eravamo, tuttavia, rispettosi verso il mondo adulto, per una sorta di abitudine e familiarità nei confronti della gerarchia, che comunque si stava sgretolando, anno dopo anno. 

mercoledì 27 settembre 2023

Alle origini della saga dei Rougon-Maquart

 Alle origini della saga dei Rougon-Maquart

Iniziate pure a leggere la saga, o per meglio dire il Ciclo, dal romanzo il cui titolo più vi affascina, vi attrae: l'amplissima produzione letteraria di Emile Zola è tutta bella, e vi catturerà, qualunque sia l'opera da voi scelta. Amerete Zola, e questo è un fatto. Tuttavia, se accettate un consiglio, vi direi che seguire l'ordine nel quale furono pubblicati i romanzi, forse non è la migliore delle scelte. 

La saga familiare, con un'infinità di rami nel suo albero genealogico, non deve necessariamente iniziare dalle origini. Il primo volume della raccolta, La fortuna dei Rougon, potrebbe apparire un poco meno avvincente rispetto agli altri, in quanto spiega le origini della famiglia. E' squisitamente narrativo-descrittivo, in quanto deve porre le basi per una lunghissima, quanto appassionante, serie di storie che coinvolgeranno i discendenti dell'infelice Adelaide, la radice malata dalla quale germoglieranno i discendenti, ai quali la donna lascerà, come eredità, almeno una traccia della propria malattia mentale. 

Per Zola, e per le finalità del romanzo naturalista, le basi, le radici familiari erano essenziali: solo così, infatti, era possibile spiegare l'origine di comportamenti patologici, decodificare le basi che hanno dato vita allo straordinario Ciclo dei Rougon-Maquart. Questa serie di romanzi si fonda su una tesi, e la finalità è lungimirante: correggere determinati comportamenti, che segnavano e tuttora segnano, la società, le famiglie, gli individui. Dipendenza da alcolici, improvvisi e irrefrenabili scatti di violenza (sulle donne, ma non solo) che spesso conduce all'omicidio. Gli aspetti degenerati della società francese della seconda metà dell'Ottocento, ma in particolare dell'ambiente parigino, avido e insaziabile, corrotto e decomposto, con gli esemplari umani e le innumerevoli varianti sui quali si basa lo studio accurato dell'autore, sono l'oggetto attorno ai quali si svolgono vicende più o meno complesse. L'ambientazione cambia continuamente, da romanzo a romanzo, ma le finalità permangono: denunciare la corruzione della società per smantellare le sue cause.

A SAFFO, parte 2^

 Dobbiamo ringraziare la bella Saffo-capelli di viola (epiteto omerico? no, e' alcaico), in particolare noi donne, ragazze, attente ai nostri diritti, che curiamo costantemente affinché non siano calpestati (come i giacinti, si diceva) dagli uomini. 

Saffo e il suo tiaso: raffinato, di nicchia, diremmo oggi, destinato a poche fanciulle elette, di famiglia aristocratica. Non mi stupirebbe: non pretendiamo una democrazia ante-litteram!

Immagino, ovviamente sulla base di quei frammenti che  a noi rimangono, fanciulle belle (sui 14 anni o poco più) alle quali Saffo dava lezioni di danza, cultura, eleganza, utile al momento opportuno. Prima di chiudersi nel gineceo, queste giovani potevano essere istruite da un'autentica insegnante di belle maniere, magistra elegantiarum. Saffo conoscente e colta, poteva ben offrire un modello di comportamento. Ma chi avrà avuto accesso al suo tiaso? Quali famiglie le avranno, con giusta fiducia, affidato le loro korai? Certamente, a loro volta, famiglie dell'aristocrazia, famiglie illuminate.

E un'emozione mi prende ogni volta che parlo di lei...

Difficile sentirsi degn* di commentare, ricordare episodi della vita di Saffo, ineguagliabile per il suo coraggio, in una società in cui la casa era suddivisa nella parte riservata agli uomini, e situata al pian terreno per meglio controllare movimenti e azioni, entrate ed uscite di ospiti, etc., e nel gineceo già citato, ove le donne della casa rimanevano rinchiuse. Questa piccola repubblica delle donne, dove Saffo era umile regina, spesso disposta ad una sorta di proskynesis di fronte all'avvenenza, è davvero un unicum, nell'antica Grecia. I contemporanei, e soprattutto coloro che vennero dopo, non le perdonarono il successo, e il desiderio (appagante e appagato) di libertà. Pensiamo solo agli alessandrini, come si diceva, che idearono il mito (falso) di Saffo brutta e umiliata, rifiutata dal bel Faone. Il colto e giovane Leopardi utilizza questo mito raro, peregrino (come ci attendiamo dagli alessandrini) a proprio uso: la natura matrigna e malvagia condanna l'umanità a desideri che non hanno mai fine, e che in alcuni casi, poiché sono del tutto irrealizzabili, portano al suicidio: l'amore appassionato di una creatura brutta, indesiderabile, verso un'altra creatura, bella e amabile; ne consegue un rifiuto umiliante, mentre il desiderio non si spegne (parliamo, infatti, di giovani). Ma passiamo oltre, con un occhio di riguardo per Leopardi, che perdoniamo.

Saffo appassionata, e forse riamata, osserva con malinconia la luna, le stelle, e dorme sola. Appassionata e scossa violentemente da Eros come da un vento implacabile, osservava una fanciulla innamorata di un ragazzo. Come tutti sappiamo, ella è gelosa e, di fronte al sorriso che la giovane rivolge al ragazzo cui è promessa, avverte la sintomatologia dell'amore in tutti gli effetti più evidenti(che brutta parola sintomatologia! Ma come altrimenti definirla?) . Arrossisce, impallidisce, percepisce la propria traspirazione, si sgomenta. Invidia la persona alla quale la giovane amata riserva la propria attenzione, il proprio sorriso. Non riesce a pronunciare parola: è emozionata, bloccata da un sentimento che non può esprimere. Saffo è gelosa del ragazzo a cui la giovane da lei amata riserva le proprie attenzioni. Il buon Caio Valerio Catullo, circa cinquecento anni dopo, si immedesimerà nelle emozioni della colta e appassionata Saffo, catturato dalle stesse emozioni, ma nei confronti di una donna. Non fraintendiamo: Catullo, la cui sessualità era forse ambigua, rivolgeva le proprie attenzioni tanto alle donne quanto ai giovani schiavi, ad esempio (era di famiglia ricca). Lo spirito saffico non perdona, ed egli chiamò con il soprannome di Lesbia la sua amata (Clodia, sfrenata nelle passioni). E' talmente evidente l'ammirazione nei confronti di Saffo la bella, coronata di viole, da utilizzare l'aggettivo derivato dal toponimo Lesbo per questa donna disprezzata, accusata delle peggiore infamie dal maschilista Cicerone. Del cui giudizio o pregiudizio morale, al nostro Catullo, nulla importava.

Arrivo, ora, a quanto volevo pervenire, con questo mio scritto. E' brutto l'aggettivo lesbica. Non è eufonico, per nulla, in lingua italiana. Accettabile in francese, in quanto suona più dolce, vi confermo: la lingua italiana dovrebbe mutare l'aggettivo in saffica. Percepite come suona questa parola? Più dolce e bello, quasi un sospiro. Il sospiro di Saffo, completamente donna, e indipendente dall'opinione altrui, a tal punto da scegliere da sé, di fronte alla poco gentile ipocrisia dei maschi, un destino difficile, ma vincente, anzi vittorioso, per oltre duemilacinquecento anni.

martedì 26 settembre 2023

A SAFFO, PARTE 1^

 SAFFO GENTILE (parte 1^)

Parto da lontano, per arrivare, alla fine di questa parentesi storico-letteraria, al nucleo che mi interessa: una questione puramente lessicale; direi, anzi, eufonica.

La nostra Poetessa, vissuta tra VII e VI secolo, nata da una nobile famiglia, costretta all'esilio, fu ammirata, e forse amata, da Alceo, che la descrive come

Saffo, dai capelli di viola.

Il che significa un'ammirazione forte e decisa per la sua bellezza, tale da trascendere l'innamoramento. Saffo viene ritratta nel suo colore dominante: l'oscurità vellutata delle viole del pensiero, viole inquietanti, dai forti contrasti. Ambigue le viole, prive di profumo, ma colorate e attraenti.

Saffo sposa - penso, sebbene non nomini un marito- e Saffo madre. Adorava la sua bambina che paragona a fiori d'oro; forse, a un sole? E per lei avrebbe dato tutto, anche l'amata Lidia . Amava- da quanto leggiamo nei suoi frammenti- alcune ragazze di particolare bellezza, che l'affascinavano. Forse per il modo di danzare, forse per una dolce memoria di stelle, da esse evocata. Da questo frammento

Sei giunta, ti desideravo

hai dato ristoro alla mia anima ardente

solo per fare un esempio, e senza la necessità di citare, ovviamente, quei versi successivamente rielaborati da Catullo, comprendiamo bene che la Poetessa provava una dolce attrazione per le ragazze come lei, con gli stessi sogni, le stesse ansie e, anche, quel desiderio d'amore e di morte che ne farà una protagonista dell'arte e della poesia romantica.

Più volte Saffo si sente impallidire del pallore della morte, più volte si sente morire. Di desiderio? D'amore? E quanto è da lei lontana, quella mela rossa

Quanto offesa di fronte a quel bel giacinto calpestato nel prato? Chi è il giacinto? Ecco un'aggraziata variante del mito di Giacinto. Il fiore profumato: una ragazza; chi lo calpesta, è sempre il maschio.

Questa delicata, giovane donna mi sembra testimoniare una progressiva consapevolezza di sé, insieme all'orgoglio di amare chi lei e solo lei voleva, incurante degli uomini ignoranti, gretti, che certamente la sbeffeggiavano. Saffo ribelle alle mistificazioni/ipocrisie legate ad un'ottica tutta maschile. L'uomo può amare chi vuole (maschio, femmina, a discrezione delle occasioni), ma la donna?

E Saffo si compiacque di creare un suo tempio, del quale, insieme ad Afrodite, era l'unica dea, o sacerdotessa, se vogliamo (per non scatenare l'atroce vendetta degli dei, con la propria ybris). Raffinata e isolata dal mondo maschilista greco, Saffo insegnò a uno stuolo di fanciulle la danza, il canto, la poesia, la musica. Ciò che cercarono di fare alcuni collegi femminili, circa due millenni più tardi.  Gli uomini, vendicativi e gelosi, forse, del suo successo - un unicum nel mondo greco, come poetessa e come donna, e per quanto riguarda la forza della sua personalità - in età ellenistica, crearono il mito di lei, innamorata di Faone e da lui rifiutata. Il triste mito di una Saffo brutta, mai esistita, mito utile e duttile, tuttavia, per elaborare una favola del tutto originale, mai percorsa dal solco di altri, quanto distante dalla realtà storica di questa donna, che i suoi contemporanei dichiararono BELLA. Unica concessione, facciamola al buon Leopardi, per il quale la Saffo del mito più raro e peregrino non era che un simbolo: se stesso.

Ma guardiamo a Saffo che osserva la luna e le stelle, e soffre di dormir sola; Saffo che brama la morte, brama l'amore: Saffo romantica, connubio di morte e d'amore. Eroina antica di cui poco è rimasto. Troppo poco, perché gli uomini non fossero impossibilitati a stratificare leggende.

Saffo vide ragazze recidersi le chiome

furiosamente, 

 nel nome di una compagna scomparsa; 

riccioli, sacrificio alle Case di Ade.

Ritornerà la nostra compagna?

Abbiamo danzato, e cantato e sognato con lei

tante volte...

Ritornerà, la nostra bella compagna?

Amiche, dov'è, dov'è la melagrana 

cara a Persefone?

Offriamo la melagrana? 

Ci ricondurrà la nostra amica,

Persefone, dalla sua oscurità?

Mito di amore e morte. Quante volte, nelle favole antiche, quante volte nelle rinnovellate favole medievali, e infine romantiche? Infine? No! E' un mito che non morirà mai, un sogno che si rinnova nell'adolescenza e, chissà, anche oltre.

Saffo si augurò la morte,

rimedio alle sofferenze d'amore, 

ma sognando fanciulle, farfalle - petali

colorati. Saffo che sogna la luna, Saffo gelosa,

non dorme, la luna luminosa

compagna delle sue veglie

le indica che l'amore sarà un cuore vuoto,

e incomprensione,

e terrore per lei, 

perchè gli uomini la odieranno, 

e si faranno beffe della sua soavità,

delicatezza calpestata dagli uomini.





venerdì 22 settembre 2023

Celeste (2^puntata)

 Celeste (2^puntata)

Servilio tornò in patria a guerra finita. Fu nel gennaio del 1919. Rientrò in una fredda sera di dicembre, mentre Santina stava versando nei piatti la polenta, che rendeva simile a una morbida crema aggiungendovi con il cop di legno un po' di latte e acqua calda; la polenta così preparata era le meste. Una parte della polenta si lasciava a parte affinché il mattino dopo si potesse tagliare a fette per la colazione, accompagnata dal latte freddo con un pizzico di sale. Alle pareti del paiolo rimaneva attaccata a la crosta croccante, che i bambini si contendevano. E quella sera, Celeste e Ghigj attendevano ansiosamente la propria parte; piccoli com'erano, si aggrappavano ai bordi del tavolo cercando di dargli la scalata. Celeste piangeva chiedendo insistentemente il suo pezzo di polenta croccante. Appena Santina vide entrare il marito, abbandonò tutto e gli si fece incontro: era talmente meravigliata per l'inatteso arrivo, che mostrò più stupore che gioia, sebbene dentro di lei la felicità era così grande che non riusciva ad esprimerla. Gli si avvicinò e lo prese per le mani, lo guardò amorevolmente ed egli, in quello sguardo, comprese ciò la moglie non era in grado di dirgli. Nessuno era abituato, in quei tempi e in quei luoghi, usare quantità di parole o manifestazioni di affetto oltre l'indispensabile, poiché tutto era silenzioso ed essenziale. E, mentre Santina si rivolgeva al marito, Celeste corse dai genitori e prendendo la mano del papà, si rivolse a lui, sebbene non lo conoscesse, con la stessa domanda poco prima rivolta alla madre: dammi pulente

- è così che accogli tuo padre? le disse con serietà la mamma.

-pupà, dammi pulente...


Inizialmente Servilio aveva progettato di fermarsi a san Tomaso e riprendere il suo lavoro in comune. Ma l'anno prima, il fratello Agostino, quel ragazzo raffinato ed elegante, era morto cadendo da un'impalcatura, nel cuore pulsante della ricca Parigi dove il lavoro non mancava, in quanto si continuava costruire bei palazzi lussuosi destinati all'alta borghesia, e dove, altresì, per i lavoratori provenienti dall'Italia non vi erano garanzie, né assistenza. Inoltre, gli inverni parigini erano molto rigidi, e agli operai provenienti dall'estero erano riservate baracche tirate su alla buona vicino al cantiere, dove il freddo e l'umidità erano impressionanti ed anche mortali, per chi non vi era abituato. Così, Servilio si era ammalato di polmonite, e ne era venuto fuori per puro miracolo: evidentemente, era di tempra robusta.

Ma il giovane non riottenne il proprio lavoro, e dovette accontentarsi di scrivere le lettere per la gente del paese; e poiché il ricavato non bastava per vivere, Santina continuava a dedicare molte ore al giorno a cucire gli stafés. Dopo neanche un anno dal rientro in patria del marito, Santina diede alla luce un'altra bellissima bambina, che già alla nascita aveva sul capo una delicata peluria del colore della canapa; fu battezzata con il nome di Palice, scelto dal papà.

Così, ora le piccole erano due; una stava nella culla – la bella culla di legno dipinto, trasmessa da almeno tre generazioni dalla famiglia di Servilio- che la mamma, mentre cuciva, faceva dondolare con il piede, perché la piccina dormisse; fortunatamente faceva dei bei sonni e, appena si svegliava, la mamma la allattava Purtroppo, però, non aveva molto latte, perché una mamma che allatta dovrebbe ogni tanto godere di un po' di riposo, ma non era questo il caso di Santina, che non poteva permetterselo. Celeste, per un po', si divertiva ad osservare con curiosità la piccolina che succhiava, finchè, annoiata, iniziava a far oscillare la culla, dapprima pian piano, poi con un po' troppa energia. Quando la mamma posava finalmente Palice nella culla e riprendeva il lavoro, Celeste la guardava infilare lunghe gugliate di spago, e cucire le nere tomaie di panno alle suole di corda; ma il tempo non passava mai, e così chiedeva se poteva anche lei preparare una gugliata: era un'impresa lunga e difficile per la bambina, che vi impiegava molto tempo; tuttavia si sentiva molto fiera di sé svolgendo quel lavoro da grandi, dove bisognava prestare attenzione a non pungersi.

Maldestramente, Celeste srotolava la matassa del filo che presto si ingarbugliava e si riempiva di nodi (tempo dopo, però, avrebbe imparato a preparare le gugliate con molta destrezza e rapidità, e questo sarebbe diventato uno dei suoi compiti quotidiani, per rendere più veloce il lavoro della madre). Quando anche preparare le gugliate iniziava a stancarla, saltellava intorno alla sedia della mamma (una di quelle seggioline di semplice paglia intrecciata, con la struttura di legno grezzo), si aggrappava allo schienale cercando di sollevarsi da terra; volo, come le rondini, diceva alla mamma. Poi, chiedeva insistentemente di stare in braccio ma, ovviamente, ciò non era possibile, poiché Santina ogni giorno doveva svolgere tutto il lavoro entro le sei di sera, per portarlo al committente la mattina dopo. In quel tempo e in quei luoghi, le giornate finivano presto, anche nei giorni d'estate; così, finiti gli stafès, preparava la cena: minestra, un pezzo di formaggio, polenta. Il marito avrebbe voluto mangiare in un certo modo (a Parigi, anche gli operai potevano permettersi di mangiare un po' di carne), ma i soldi non bastavano; spesso Celeste veniva mandata dalla nonna Mariute, per chiederle un po' di bollito, e un po' d'olio per condire la minestra. Avevano alcune galline, che servivano per le uova; le galline razzolavano nel cortile, ma spesso entravano in cucina. Uno degli incarichi di Celeste era cacciarle fuori e non lasciarle entrare, perché il papà non ammetteva animali in casa, e su questo punto era molto rigoroso; pertanto, lodava la bambina: vederla così impegnata e seria lo inteneriva. Allora la prendeva in braccio e la sollevava in alto: ma che brava la mia Celeste, le diceva, sorridendo; poi, felice per quell'abbraccio del papà, e per le sue parole, la bambina riprendeva con severità a scacciare le galline, che nel frattempo stavano rientrando. Quanto si divertiva a rincorrere le galline! Tuttavia, le veniva proibito di spaventarle, perché il giorno dopo non avrebbero prodotto uova. Forse per natura, forse per l'ambiente in cui era cresciuto, per quella matrigna che era stata una madre affettuosa, Servilio era più espansivo di Santina, con i suoi bambini, ai quali, talvolta, portava un cartoccio di mentine, quelle belle caramelline di zucchero colorato, o un biscotto a forma di S per ciascuno: niente li rendeva più felici. Lui li osservava, contento, ma anche pensoso; per molti motivi, il futuro non lo lasciava tranquillo. Temeva che molto presto qualcosa sarebbe cambiato in peggio, e che i paesi del Friuli fossero minacciati da un pericolo forse peggiore della guerra e di quelle ristrettezze che tutti sentivano.


Nelle campagne e nei più piccoli paesi circolavano da tempo le idee socialiste e, ancor prima e anche più diffuse, quelle anarchiche. In qualche osteria e in qualche officina di fabbro vi erano appese le immagini dei più conosciuti personaggi del tempo, che avevano la fama di difendere i diritti dei lavoratori. In alcune stalle avevano appeso la falce e il martello, disposte in modo da formare il simbolo che per molti rappresentava la giustizia e l'uguaglianza. Tanti giovani erano stati all'estero, dove erano ormai diffuse nuove idee che i più svegli portavano in patria e, a loro volta, diffondevano. La maggior parte dei genitori non credeva in possibili cambiamenti, o meglio, in un riscatto dei poveri, nella fine dello sfruttamento: i padroni sarebbero sempre rimasti tali. I vecchi avevano assistito al passaggio del Friuli al Regno d'Italia e, come in molte altre regioni, i mutamenti non avevano portato nulla di buono ai contadini, ai poveri, ma piuttosto nuove, onerose e spesso incomprensibili tassazioni, oltre che la leva obbligatoria. La miseria era talvolta brutale, soprattutto nei paesini di montagna, dove non si sapeva nulla di quanto accadeva; e talvolta si presentavano i gendarmi con la cartolina rosa, che portavano via chi aveva all'incirca vent'anni (i dati anagrafici non erano così certi).

Servilio, sin da quando studiava a Udine, era venuto a conoscenza riguardo le idee più aggiornate; le sue letture, come spesso accade per i più giovani e inesperti, erano un po' disorganizzate, ma aveva capito che occorreva, con ogni mezzo, combattere contro le prepotenze, le prevaricazioni che i ricchi – industriali e possidenti – esercitavano sui lavoratori, operai e contadini. E in seguito, negli anni trascorsi in Francia, si erano consolidati in lui quegli ideali di giustizia e di rinnovamento, che si era ripromesso di non tradire, una volta rientrato in patria.

Ora, giovane padre di quattro figli, sentiva tutto il peso delle difficoltà economiche, ma in particolare avvertiva il pericolo che gravava su di sé, e sulla sua famiglia. Servilio si dichiarava socialista, come altri del paese, giovani e meno giovani. E a S.Tomaso le idee socialiste avevano attecchito, circolavano giornali come l' Avanti, e inoltre opuscoli e anche qualche libro, per i più acculturati; il buon Falcuc condivideva le idee del genero e le giudicava molto giuste, pur senza farsi illusioni; ad ogni buon conto, aveva appeso nella stalla un quadretto con l'immagine di Lenin.

Ma presto, prestissimo, la bufera del fascismo avrebbe appestato anche quei luoghi; iniziarono a farsi vedere le camionette, guidate da individui in camicia nera: qualche volta erano giovani del posto, corrotti dal fascismo. Si riconoscevano persone dello stesso paese, ragazzi che avevano frequentato insieme la scuola, la dottrina, gli amici. Ma l'amicizia non aveva più alcun valore. Quanti furono caricati sulle camionette, quanti furono presi e torturati, quanti furono gettati nella Ledra o nel Tagliamento?

Servilio preferì pertanto ritornare a Parigi, dove riprese il lavoro nei cantieri; e alla sera, insieme ai compagni e a coloro che provenivano dal suo stesso paese, o da paesi vicini, parlava di Santina, della sua bellezza, di quanto la amava, E parlava dei suoi bambini, di quanto erano belli, intelligenti e svegli, seppure così piccoli: promettevano bene, ma bisognava costruire il loro futuro lottando per la giustizia e l'uguaglianza.

Con le sue parole, in fondo cosi' semplici e ingenue, cercava di diffondere gli ideali che aveva nel cuore, e che non nascondeva; in Francia si sentiva aria di libertà, come diceva lui. Ed aveva sempre la speranza che la moglie lo raggiungesse.

Le scriveva ogni giorno, ed erano lettere da innamorato, che promettevano per lei e per i figli una vita migliore di quella attuale, e di quella che li attendeva. Ma questo non servì a convincerla. Certo, Santina rispondeva alle lettere del marito, tuttavia non scrivendole di sua mano. Si rivolgeva ad un'amica che, a suo dire, sapeva scrivere correttamente in italiano ed aveva una bella calligrafia; ma Santina, come le altre sue coetanee del paese, aveva frequentato la scuola sino alla seconda elementare, come voleva la legge di allora, e sapeva scrivere. Servilio fu molto esplicito nel farle sapere che non gradiva quelle lettere, scritte da un'altra persona: smettila, le scrisse, o attendi risposta. Questo la spaventò, e iniziò a comporle da sé, con molta incertezza , per cui non riusciva ad esprimere il sentimento d'amore per il marito, che pure era forte. Pertanto, il tono rimase identico: Santina si limitava a dargli notizie dei figli, del lavoro, dell'orto, mentre le lettere di Servilio erano intrise d'amore, e dalla sofferenza per l'assenza di lei. Arrivò al punto di supplicarla di prendere i bambini e raggiungerlo a Parigi. Ma Santina, caparbiamente, volle restare nel suo paese, nonostante amasse molto il marito, di cui sentiva fortemente la mancanza.

Dopo un po' di tempo, di fronte a tanta ostinazione, Servilio non glielo chiese più; poi le lettere si diradarono, ed assunsero un tono più freddo.

Dopo qualche mese, smise di scrivere alla moglie.



sabato 9 settembre 2023

Celeste. Storia di una ragazza (1^puntata)

 

Celeste (1^ puntata)


Dopo la disfatta di Caporetto, nell'ottobre del 1917, i soldati austro-tedeschi dilagarono in Friuli; la loro avanzata determinò la fuga di circa 600.000 civili che seguivano la massa enorme dei soldati in ritirata. Nelle campagne, i contadini caricavano su carri e carretti le proprie masserizie, materassi, utensili, pentole di rame e quel poco di vestiario e biancheria che si trovava nelle case dei più fortunati, e inoltre sacchi di grano e di patate e tutti s'ingegnavano a portare via il più possibile, a lasciare le case vuote di roba, a non lasciar nulla agli austriaci. Le bestie non sempre si riuscivano a salvare, e talvolta venivano abbandonate con tristezza immensa nelle stalle e nei porcili: quelle bestie che per alcuni rappresentavano anni di sacrifici e speranze. Non c'era altro da fare, se le sarebbero portate via i soldati. Anche i ricchi lasciavano le proprie ville e dimore signorili, cercando di salvare le suppellettili più belle e preziose, che ammassavano sui grandi carri solitamente usati per il fieno, su carrozze e calessi, per trasportarli più lontano possibile; li caricavano all'inverosimile, perchè non c'era tempo e la roba da mettere in salvo era molta (qualcosa si sotterrava anche negli orti e nei giardini, in attesa di tempi migliori). Così, capitava che qualche pezzo cadesse lungo la strada. I contadini più poveri, che non avevano nulla da perdere perché non possedevano nulla, non abbandonavano le proprie case, ma restavano nei paesi, in attesa paziente di quanto sarebbe accaduto. E capitava che trovassero, dopo il passaggio dei carri, qualche oggetto perduto lungo la strada o gettato giù per alleggerire carichi eccessivi; erano rami lucenti, brocche di porcellana, coperte pesanti, interi corredi ricamati e nuovi, destinati a qualche candida sposa. Quegli oggetti, che i contadini non erano abituati a maneggiare, facevano loro una strana impressione, come di apparizioni misteriose. Li raccoglievano cauti, consapevoli della loro fragilità: doveva fare un effetto particolare la lucida porcellana fiorita in quelle mani energiche e grandi, dalla pelle ispessita dal lavoro e percorsa da sottili solchi anneriti dal continuo contatto con la terra; portavano quegli oggetti nelle proprie case e per molti anni, nelle umili stanze, nelle cucine oscure, avreste potuto trovare vasellame di raffinata fattura sugli antichi tavoli di legno reso lucido dall'usura e dal tempo.

Rimanevano nei paesi, risoluti nella volontà di non abbandonare la casa, tutti coloro che rifiutavano l'infelicissima sorte dei profughi: destino da molti ritenuto assai più spaventoso che l'arrivo degli stessi austriaci. Molte donne, con il marito al fronte, e con figli piccoli, non se la sentivano di lasciare il paese e i propri cari.

Tra queste donne vi era Santina, con i suoi due figli in tenera età: non sarebbe mai partita per un destino ignoto, verso chissà quale luogo sconosciuto; non era disposta a viaggiare alla ventura, senza una meta precisa, con la prospettiva di lunghe distanze e di ulteriori spostamenti, come singar dall'Unghjarie, si diceva.

E la sorte incontrata dai profughi fuggiti dal Friuli diede ragione a Santina, e a coloro che ebbero la determinazione di restare: in molti casi, la fuga si trasformò in una deportazione in regioni lontane e del tutto estranee, dove non era neppur possibile comunicare perché il dialetto era per loro incomprensibile. A ciò si aggiungeva la miseria diffusa, e la diffidenza delle persone dei luoghi a cui furono destinati, se non la palese ostilità, come ad esempio accadde a chi si fermò nelle campagne della Toscana. Più avanti, finita la guerra, i profughi, ben lontani dall'idea di stanziarsi là dove si erano provvisoriamente fermati, ritornarono in Friuli. Molti non trovarono più le case come le avevano lasciate, ma distrutte dai due eserciti in guerra; iniziarono così, immediatamente a ricostruire o a riparare le abitazioni, a dissodare e a rendere nuovamente fertili i campi, e produttivi gli orti. Il lavoro ripartì più alacre ed ostinato di prima.


Santina e Servilio si erano sposati due anni prima che l'Italia entrasse in guerra. Erano vissuti per diversi anni lontano dal loro piccolo paese, in Austria, in Germania e in Francia. Santina era cresciuta lavorando 14 ore al giorno in una fabbrica di mattoni, a Klagenfurt, dove, all'età di 12 anni, insieme a una sorella un poco più piccola di lei, aveva seguito una giovane zia. Le operaie friulane dormivano, una accanto all'altra, due per ogni giaciglio, in una baracca accanto alla fabbrica. Le condizioni igieniche ho potuto dedurle da qualche dettaglio dei racconti di chi visse questa esperienza. Il meccanismo migratorio, in quei territori da poco conquistati dal regno d'Italia, funzionava a un dipresso così: arrivava una cartolina postale o la fotografia di qualcuno che era partito “per far fortuna” qualche tempo prima; nelle cartoline, solitamente, si scriveva “qui tutto bene, e così spero di voi”, o altre formule analoghe. Arrivavano, dunque, queste fotografie-cartoline postali, e si spargeva nel paese la notizia che nella tale fabbrica, nella tale città (non era importante quanto fosse lontana), venivano assunti lavoranti. Nelle “fornaci”, ossia fabbriche di mattoni, lavoravano molte donne e bambini. Le giovani partivano, talvolta con un parente più piccolo; il lavoro c'era davvero, ma poiché la manodopera disponibile era molta, il salario era di pochi soldi che venivano regolarmente spediti a casa, dove quasi sempre c'erano bambini piccoli, che non potevano ancora lavorare nemmeno nell'orto o stare dietro alle bestie. La famiglia di Santina era numerosa: nove fratelli, due dei quali erano morti piccoli, mentre alcuni se ne sarebbero andati con la Grande guerra. La mamma di Santina si chiamava Mariute, e il papà Giovanni, ma tutti lo chiamavano “Falcuc” perché “Falc” era stato il soprannome di suo padre (il cui nome era Zef) uomo dallo sguardo acuto e indagatore. Falcuc aveva lavorato in Austria e poi in Germania, dall'età di 8 anni sino ai 29-30, seguendo uno zio poco più grande di lui. Una bella foto, trovata decenni dopo in fondo al cassetto di una credenza relegata in un angolo oscuro della casa (erano venute di moda le cucine all'americana, tutte di formica, e ci si vergognava delle vecchie credenze in legno) lo rappresenta insieme ad un gruppo di amici, seduti al tavolo di una birreria; ha dei baffi importanti e un'ampia fronte lasciata libera dal cappello un po' all'indietro. Porta un bel bastone da passeggio, probabile oggetto facente parte dell'armamentario dei fotografi di allora che costruivano, per ogni foto, una vera e propria scenografia con piante, poltroncine, tappeti, fondali dipinti. Sul tavolo vi sono alcuni boccali pieni. Le espressioni, le fisionomie, gli sguardi sono tra loro diversissimi; tuttavia, questi uomini hanno in comune un portamento fiero e nobile. In piedi, dietro al Falcuc, in una posa più ricercata, vi è il giovane Agostino, con un cappello di foggia cittadina, il braccio sul fianco e un'espressione alquanto altera sul viso dai lineamenti fini: poteva permetterselo, poiché è visibilmente il più bello e il più giovane del gruppo, ed apparteneva ad una ricca famiglia decaduta. Quella foto fu inviata, come cartolina postale, ad una famiglia di San Tomaso.

Tornato in patria, Falcuc lavorava nei campi; partiva molto presto, al mattino, e ritornava al tramonto; a metà mattinata, la nipotina Celeste gli portava il pranzo (se era a scuola, salutava la maestra e se ne andava col suo cestello). Falcuc doveva lavorare molto, per riuscire a non far mancare nulla alla sua famiglia: sulla tavola c'erano il burro, l'olio d'oliva, spesso persino la carne, con cui la moglie preparava dell'ottimo brodo. La sera, poi, lavorava in qualche orto vicino, per conto di chi gli affidava questo incarico; era molto bravo anche a intagliare il legno, con cui realizzava mestoli e cucchiai per un venditore che girava di paese in paese con un carretto pieno di oggetti d'ogni sorta, compresi grembiuli, fazzoletti, scialli.

L’orto di casa, lo coltivava la moglie, che si occupava anche delle galline. Tuttavia tanto lavoro non bastava, e così Santina, insieme a una sorella e a una giovane zia, erano partite per la Germania, così avrebbero mandato un po' di soldi a casa, dove c'erano ancora i fratellini.

Il giovane Agostino, che abbiamo incontrato nella foto di Klagenfurt, era il fratello di Servilio, che avrebbe sposato Santina. Servilio era un ragazzo bello e raffinato nell'aspetto e nei modi; lo sguardo altero, il viso dai tratti fini, i baffi sottili e l'abbigliamento di una certa ricercatezza erano segni d'appartenenza ad una famiglia di signori. In realtà, dopo la morte del nonno di Agostino e Servilio, i beni della famiglia (dei terreni e una villa, forse una grande cascina) erano stati venduti e divisi. Luigi, il padre di Servilio, rimase presto vedovo, con i suoi due bambini; la moglie, di nome Celestina, era morta a causa di una febbre puerperale, dopo aver dato alla luce una femmina prematura, che non sopravvisse. Luigi sposò in seconde nozze una vedova, madre di due bambini; era una levatrice, tenuta in gran conto e molto stimata anche nei paesi vicini. Quando, pochi anni dopo, anche il padre di Servilio morì in seguito a una polmonite, la donna, per mantenere decorosamente i quattro ragazzi, che avrebbe voluto far studiare, intensificò il proprio lavoro di levatrice, trovò il modo di risparmiare occupandosi ella stessa della casa, e poi anche del campo e degli animali; ma tutto ciò non fu sufficiente, e dopo pochi anni i figli più grandi dovettero emigrare in Germania. Le restava Servilio, sul quale aveva riposto le proprie ambizioni: sperava che, studiando, avrebbe potuto raggiungere una posizione ragguardevole. Il ragazzo studiò per qualche anno a Udine, ma i sacrifici della matrigna non bastavano a coprire le spese, e dovette pertanto ritornare a San Tomaso, dove il comune gli affidò l'incarico di segretario. In paese, Servilio era considerato un intellettuale, e molti lo incaricavano di scrivere lettere ai familiari lontani, sia perché molti non erano in grado di farlo, sia perché aveva una bella ed elegante grafia: le persone si incantavano nell'osservarlo, mentre tracciava con un fine pennino quei caratteri che sembravano danzare come sottili riccioli d'inchiostro.

Fu verso i vent'anni che Servilio si invaghì di Santina, che era tornata dalla Germania, ed ora aiutava la madre a confezionare gli stafès, quelle semplici scarpe di feltro nero, utilizzate quotidianamente da tutti, nei paesi e nelle campagne. Santina aveva gli occhi neri, che erano una rarità, e una bella treccia di un colore castano molto scuro, per lo più nascosta sotto il fazzoletto, che le donne portavano, fin da giovanissime, annodato dietro la nuca e calato sulla fronte. I colori di Santina erano, dunque, quanto di più bello si potesse immaginare in quei paesi; la ragazza era considerata di grande avvenenza, anche per la statura e il bel portamento. Servilio si sentiva invidiato dai giovani del paese; la sua fidanzata era molto corteggiata, ma aveva rifiutato tutti i pretendenti, tranne lui.

Anche Servilio era considerato un bellissimo giovane, e molte erano le ragazze che avrebbero voluto sposarlo, ma egli non vedeva che Santina.

I genitori della giovane, però, non erano contenti. E, mentre Falcuc evitava di esprimere la propria opinione, com'era il suo solito, la mamma Mariute non temeva di manifestare alla figlia quanto fosse preoccupata per il suo futuro: Servilio apparteneva a una famiglia di signori, che, sebbene caduti in miseria, cercavano di mantenere le abitudini a cui erano affezionati, che li distinguevano dagli altri: non vedeva, forse, come si vestiva? E quante ragazze lo corteggiavano? Avrebbe mai lavorato i campi, quel giovane? Questo, a un di presso, era ciò che la mamma Mariute cercava di far capire alla figlia la quale, innamorata del bellissimo Servilio, non voleva sentire ragioni, e ogni sera, dopo il lungo lavoro degli stafès, riprendeva a cucire il proprio corredo. Una fotografia del tempo la ritrae in un interno – uno studio fotografico con modesta scenografia- insieme a due amiche, o forse sue compagne di lavoro, probabilmente sue coetanee: Santina ha i capelli raccolti, ma con morbide onde che circondano il suo viso ovale; lo sguardo appare dolce ma attento, le labbra sono delicate, ma piene. Una camicetta a righe sottili, guarnita con passamaneria ricamata, la ricopre sino al collo; indossa una gonna che le arriva alle caviglie, ma la stoffa ha una fantasia vivace e chiara. Con evidente imbarazzo, tiene in mano due rose bianche, ma rivolte verso il basso, quasi a nasconderle, come chi non è abituato a portare fiori. Una delle ragazze sembra sfogliare una rivista di moda aperta sopra un tavolino, ma il suo sguardo è diretto verso l'obbiettivo del fotografo. Quella foto è l'unica immagine che ritrae Santina da ragazza: una foto era un lusso, per una giovane della sua condizione, ma lei la volle per donarla a Servilio.


Santina aveva carattere, si dimostrava ostinata nelle proprie decisioni, e così rimase per tutta la sua lunga vita. Non diede retta alla madre, non fece caso alla mite e silenziosa perplessità del padre, e sposò il giovane tanto amato.

Una fotografia-cartolina postale color seppia, di cartoncino abbastanza spesso, ritrae la coppia, che fa una gran figura; Santina è felice: i suoi occhi parlano della sua gioia, ed anche del suo orgoglio, di essere sposa: i capelli sono raccolti molto morbidamente, quasi a esaltarne l'abbondanza, in un'acconciatura elaborata. E' un'occasione speciale, ed anche l'abito è bello: la lavorazione è accurata, con molti dettagli. Lo sposo, impeccabilmente vestito di scuro, con un alto colletto inamidato secondo la moda di allora, ha un'espressione altera e distaccata; ha la mano poggiata su un fianco, e non guarda nella direzione dell'obbiettivo, né della sua sposa, ma è come intento ad osservare qualcosa di esterno alla fotografia. Il viso è molto bello: di un ovale perfetto, il naso sottile e i baffi solo un poco arricciati.

Dopo le nozze, Servilio continuò a svolgere il suo lavoro di segretario. Aveva preso in affitto una casa con una grande cucina, una grande camera da letto, e un bell'orto. In precedenza, quell'antica casa era stata una locanda, e nella grande stanza al pianterreno si ballava, la domenica pomeriggio.

Santina era orgogliosa di questa casa, dove lei si sentiva una signora; nella cucina al piano terra c'era il fogolar, un tavolo di legno antico, ed una panca tra il muro e il tavolo. Sembrava una panca da chiesa, era scura e lucida per l'usura. C'erano pentole di rame appese al muro, come allora si usava; Santina pensava che le avrebbe lucidate, come nelle case dei signori. il soffitto era un po' affumicato, ma il pavimento della cucina era composto da belle lastre di pietra, che non tutti potevano permettersi. Al piano di sopra – collegato al pianterreno tramite una scala di pietra, dagli alti gradini e dal passamano consunto – c'era la camera degli sposi. Era una grande stanza, dove i muri erano stati imbiancati con la calce di recente; il letto era ampio, ed aveva quella forma “a culla” tipicamente ottocentesca, ormai introvabile, con due alti materassi di lana. C'era un attaccapanni appeso ad un muro (un'asticciola con semplici chiodi), ed un baule. Ma c'era anche una cassettiera, arredo non comune nelle campagne, e appoggiato sulla cassettiera, uno specchio basculante; sotto lo specchio un piccolo cassetto, forse destinato a custodire i gioielli della sposa. Il pavimento era composto di assi di legno chiaro e lucido: una rarità, in un piccolo paese. Per di più, la grande e bella camera si affacciava su una poggiolata in legno, con la ringhiera lavorata. Santina era molto felice, da sposa novella, e in qualche modo gustava l'invidia sottile delle sue coetanee del paese. Tuttavia lavorava, coltivando le verdure e occupandosi delle galline; avevano comprato anche un maiale, che se ne stava in una casetta di pietra a fianco al gabinetto, nell'orto.

Ma, con l'arrivo del primo figlio, nato in una delle radiose giornate di maggio del 1915, Servilio dovette decidere il proprio futuro, e quello della sua famiglia. Così, risolse di partire per la Francia, dove il lavoro c'era perché, nonostante la guerra, a Parigi si continuava a costruire, a rendere più moderni i quartieri e le strade. Aveva chiesto alla Santina di partire con lui: ebbene, sì, di emigrare; gli piangeva il cuore allontanarsi da lei, era veramente innamorato! Ma la moglie aveva rifiutato perché non voleva lasciare il suo primogenito ad una balia, né tanto meno avrebbe potuto portarlo con loro. Tanta ostinazione a restare in paese, e a non volerlo seguire, finì con il creare dell'ostilità, e anche qualche lite. Servilio partì, dunque, insieme al fratello; qualche settimana dopo, ricevette dalla moglie una lettera, con cui gli annunziava che sarebbe diventato di nuovo papà.


Celeste nacque nella stagione della vendemmia, anche se in quell’anno, il 1916, mancava il consueto entusiasmo per la raccolta dell'uva, e si cercava piuttosto di portare avanti il necessario per sopravvivere: i prodotti dell'orto, le galline e qualche mucca per i più fortunati; un maiale, per chi poteva permetterselo. Nei paesi, come durante tutte le guerre, restavano solo le donne, i vecchi e i bambini; gli uomini erano al fronte o erano emigrati.

Nel 1917, dopo Caporetto, gli austriaci si stanziarono per un periodo anche a S.Tomaso. Dopo anni ed anni, Santina avrebbe parlato di quei soldati come di presenze innocue; alcuni ufficiali si erano stabiliti nella casa di Santina e Servilio, ma avevano occupato una sola stanza senza dare alcun fastidio, anzi, lasciando poi una quantità di scatolame, ed altri viveri. Gli Austriaci erano fratelli, da secoli; questo legame, questa appartenenza non era scomparsa con la conquista da parte del regno d'Italia. Uno di questi ospiti si affezionò particolarmente a Celeste, che nell'estate del 1917 aveva un anno; spesso chiedeva a Santina se poteva tenerla per un po'. Così, finché gli austriaci rimasero in paese, si poteva incontrare l'austriaco con la bambina in braccio: se la portava in giro orgogliosamente, e per questo i suoi compagni lo chiamavano scherzosamente Celeste. Quante volte, diventata adulta, Celeste ripensò a questo giovane, che forse, a casa, aveva lasciato una bambina piccola, simile a lei per il colore dei capelli e degli occhi; probabilmente gliela ricordava. Si domandava anche quale fosse stato il destino di quel giovane, da lì a poco. Celeste conservò nel cuore, per tutta la vita, questo ricordo, e lo trasmise: un ricordo che rimane, dopo oltre un secolo, dolce e nostalgico.


sabato 2 settembre 2023

Vertigo 2 Zola

 Vertigo 2

La grandezza spiazzante e straniante per il lettore è presente in tutti i romanzi di Zola; vi è un momento, o più momenti, che creano uno stato d'ansia, forse positivo, energizzante e catartico, dove sembrano scomparire i confini della forza, della grandezza che diviene minacciosa: come nel caso della Bestia umana, con la celebre umanizzazione della locomotiva a vapore, per la quale il protagonista manifesta un particolare attaccamento, quasi una relazione amorosa, con questa "compagna" di ferro, enorme e sbuffante, spietata, ma non per lui, che la controlla, accudisce e cura, ma riesce pure a domarla, a soggiogarla e sottometterla, con una forza talvolta brutale. L'equilibrio (precario) che si crea tra questa temibile creatura del progresso e l'uomo riflette le perplessità dell'autore nei confronti della tecnologia che, allora, suscitava grande entusiasmo. Ma la locomotiva si muta, poi, in un mostro indomabile e omicida, nel momento in cui un'eclisse improvvisa della razionalità e del controllo umano la abbandona alla sua pura forza.

Ma, inaspettatamente, anche nell' Opera  incontriamo la rappresentazione della grandezza senza confini, che procura al lettore un senso di vertigine, invincibile e progressivo. Il protagonista, il pittore Claude Lantier,  rimane prigioniero del suo dipinto dalle dimensioni immani, smisurate, dove l'enorme  donna  in primo piano lo cattura, lo divora. La tela inquietante e mai finita che divorerà il tempo, la vita, la famiglia e lo stesso pittore-amante, che fatalmente  verrà distrutto. Altro punto in cui troviamo un climax di grandezza, nel quale il lettore si smarrisce, è l'esposizione ufficiale dei quadri di artisti emergenti, o che cercano di emergere. Una corsa disperata affinché il pubblico si accorga di loro, una corsa contro il tempo, contro la brutalità dei giudici che rifiuteranno i lavori, annientando ogni  speranza possibile. Migliaia di quadri passati in rassegna da una giuria per lo più improvvisata e prevenuta, sempre più annoiata passo dopo passo, quadro dopo quadro, lungo i corridoi e le sale dell'Accademia; spazi coperti senza soluzione di continuità da dipinti belli oppure orribili, dal pavimento al soffitto (in alto, in alto, dove li avvolge l'oblio, o l'umiliazione,  dell'invisibilità). Infine, l'immensità nella disperazione: tradurre la sofferenza, la visione della morte di un bimbo consunto dalla fame e dall'indifferenza, distrutto e sacrificato al quadro, o alla donna che giganteggia nel quadro, che esige la priorità su tutto e tutti. Rappresentare il proprio bambino morto, con tratti terribili, la trasformazione del corpo a poche ore dalla morte. Osare tanto, da esporre quella tela, e il proprio figlio, al ludibrio o allo sdegno del pubblico. La devastazione di Claude come uomo, marito e padre, è totale. Gli resta la donna del quadro, la terribile gigantessa, che gli suggerirà l'unica via da intraprendere.

 Ho sentito intorno a me

Immensità deserte e oscure.
Solo talvolta, qualche rara luce
Sfuggita non si sa perché,
tanto rara che mi sembra abbagliante,
Troppo luminosa, e commovente
mi fa ascoltare il frinire di cicale
Quando l'estate impallidisce
Con il vento di mare.
Qualche luce segna la strada:
Che delicatezza di colori,
Timide tortore fuori luogo
Sulle aride strade ai limiti della città.
Che delicatezza di suoni:
In un cortile nascosto, dimenticato,
Un passero canta ogni mattina.
Un filo di speranza, un'ombra di vita,
In questa vita-non-vita?
Tutte le reazioni:
Fatima Floris, Rori Crea e altri 6

Una bella classetta (racconto)

  Una bella classetta tutta di femmine Dai tempi dell'asilo sino al termine della scuola media, Agata dovette frequentare una scuola di...