venerdì 22 settembre 2023

Celeste (2^puntata)

 Celeste (2^puntata)

Servilio tornò in patria a guerra finita. Fu nel gennaio del 1919. Rientrò in una fredda sera di dicembre, mentre Santina stava versando nei piatti la polenta, che rendeva simile a una morbida crema aggiungendovi con il cop di legno un po' di latte e acqua calda; la polenta così preparata era le meste. Una parte della polenta si lasciava a parte affinché il mattino dopo si potesse tagliare a fette per la colazione, accompagnata dal latte freddo con un pizzico di sale. Alle pareti del paiolo rimaneva attaccata a la crosta croccante, che i bambini si contendevano. E quella sera, Celeste e Ghigj attendevano ansiosamente la propria parte; piccoli com'erano, si aggrappavano ai bordi del tavolo cercando di dargli la scalata. Celeste piangeva chiedendo insistentemente il suo pezzo di polenta croccante. Appena Santina vide entrare il marito, abbandonò tutto e gli si fece incontro: era talmente meravigliata per l'inatteso arrivo, che mostrò più stupore che gioia, sebbene dentro di lei la felicità era così grande che non riusciva ad esprimerla. Gli si avvicinò e lo prese per le mani, lo guardò amorevolmente ed egli, in quello sguardo, comprese ciò la moglie non era in grado di dirgli. Nessuno era abituato, in quei tempi e in quei luoghi, usare quantità di parole o manifestazioni di affetto oltre l'indispensabile, poiché tutto era silenzioso ed essenziale. E, mentre Santina si rivolgeva al marito, Celeste corse dai genitori e prendendo la mano del papà, si rivolse a lui, sebbene non lo conoscesse, con la stessa domanda poco prima rivolta alla madre: dammi pulente

- è così che accogli tuo padre? le disse con serietà la mamma.

-pupà, dammi pulente...


Inizialmente Servilio aveva progettato di fermarsi a san Tomaso e riprendere il suo lavoro in comune. Ma l'anno prima, il fratello Agostino, quel ragazzo raffinato ed elegante, era morto cadendo da un'impalcatura, nel cuore pulsante della ricca Parigi dove il lavoro non mancava, in quanto si continuava costruire bei palazzi lussuosi destinati all'alta borghesia, e dove, altresì, per i lavoratori provenienti dall'Italia non vi erano garanzie, né assistenza. Inoltre, gli inverni parigini erano molto rigidi, e agli operai provenienti dall'estero erano riservate baracche tirate su alla buona vicino al cantiere, dove il freddo e l'umidità erano impressionanti ed anche mortali, per chi non vi era abituato. Così, Servilio si era ammalato di polmonite, e ne era venuto fuori per puro miracolo: evidentemente, era di tempra robusta.

Ma il giovane non riottenne il proprio lavoro, e dovette accontentarsi di scrivere le lettere per la gente del paese; e poiché il ricavato non bastava per vivere, Santina continuava a dedicare molte ore al giorno a cucire gli stafés. Dopo neanche un anno dal rientro in patria del marito, Santina diede alla luce un'altra bellissima bambina, che già alla nascita aveva sul capo una delicata peluria del colore della canapa; fu battezzata con il nome di Palice, scelto dal papà.

Così, ora le piccole erano due; una stava nella culla – la bella culla di legno dipinto, trasmessa da almeno tre generazioni dalla famiglia di Servilio- che la mamma, mentre cuciva, faceva dondolare con il piede, perché la piccina dormisse; fortunatamente faceva dei bei sonni e, appena si svegliava, la mamma la allattava Purtroppo, però, non aveva molto latte, perché una mamma che allatta dovrebbe ogni tanto godere di un po' di riposo, ma non era questo il caso di Santina, che non poteva permetterselo. Celeste, per un po', si divertiva ad osservare con curiosità la piccolina che succhiava, finchè, annoiata, iniziava a far oscillare la culla, dapprima pian piano, poi con un po' troppa energia. Quando la mamma posava finalmente Palice nella culla e riprendeva il lavoro, Celeste la guardava infilare lunghe gugliate di spago, e cucire le nere tomaie di panno alle suole di corda; ma il tempo non passava mai, e così chiedeva se poteva anche lei preparare una gugliata: era un'impresa lunga e difficile per la bambina, che vi impiegava molto tempo; tuttavia si sentiva molto fiera di sé svolgendo quel lavoro da grandi, dove bisognava prestare attenzione a non pungersi.

Maldestramente, Celeste srotolava la matassa del filo che presto si ingarbugliava e si riempiva di nodi (tempo dopo, però, avrebbe imparato a preparare le gugliate con molta destrezza e rapidità, e questo sarebbe diventato uno dei suoi compiti quotidiani, per rendere più veloce il lavoro della madre). Quando anche preparare le gugliate iniziava a stancarla, saltellava intorno alla sedia della mamma (una di quelle seggioline di semplice paglia intrecciata, con la struttura di legno grezzo), si aggrappava allo schienale cercando di sollevarsi da terra; volo, come le rondini, diceva alla mamma. Poi, chiedeva insistentemente di stare in braccio ma, ovviamente, ciò non era possibile, poiché Santina ogni giorno doveva svolgere tutto il lavoro entro le sei di sera, per portarlo al committente la mattina dopo. In quel tempo e in quei luoghi, le giornate finivano presto, anche nei giorni d'estate; così, finiti gli stafès, preparava la cena: minestra, un pezzo di formaggio, polenta. Il marito avrebbe voluto mangiare in un certo modo (a Parigi, anche gli operai potevano permettersi di mangiare un po' di carne), ma i soldi non bastavano; spesso Celeste veniva mandata dalla nonna Mariute, per chiederle un po' di bollito, e un po' d'olio per condire la minestra. Avevano alcune galline, che servivano per le uova; le galline razzolavano nel cortile, ma spesso entravano in cucina. Uno degli incarichi di Celeste era cacciarle fuori e non lasciarle entrare, perché il papà non ammetteva animali in casa, e su questo punto era molto rigoroso; pertanto, lodava la bambina: vederla così impegnata e seria lo inteneriva. Allora la prendeva in braccio e la sollevava in alto: ma che brava la mia Celeste, le diceva, sorridendo; poi, felice per quell'abbraccio del papà, e per le sue parole, la bambina riprendeva con severità a scacciare le galline, che nel frattempo stavano rientrando. Quanto si divertiva a rincorrere le galline! Tuttavia, le veniva proibito di spaventarle, perché il giorno dopo non avrebbero prodotto uova. Forse per natura, forse per l'ambiente in cui era cresciuto, per quella matrigna che era stata una madre affettuosa, Servilio era più espansivo di Santina, con i suoi bambini, ai quali, talvolta, portava un cartoccio di mentine, quelle belle caramelline di zucchero colorato, o un biscotto a forma di S per ciascuno: niente li rendeva più felici. Lui li osservava, contento, ma anche pensoso; per molti motivi, il futuro non lo lasciava tranquillo. Temeva che molto presto qualcosa sarebbe cambiato in peggio, e che i paesi del Friuli fossero minacciati da un pericolo forse peggiore della guerra e di quelle ristrettezze che tutti sentivano.


Nelle campagne e nei più piccoli paesi circolavano da tempo le idee socialiste e, ancor prima e anche più diffuse, quelle anarchiche. In qualche osteria e in qualche officina di fabbro vi erano appese le immagini dei più conosciuti personaggi del tempo, che avevano la fama di difendere i diritti dei lavoratori. In alcune stalle avevano appeso la falce e il martello, disposte in modo da formare il simbolo che per molti rappresentava la giustizia e l'uguaglianza. Tanti giovani erano stati all'estero, dove erano ormai diffuse nuove idee che i più svegli portavano in patria e, a loro volta, diffondevano. La maggior parte dei genitori non credeva in possibili cambiamenti, o meglio, in un riscatto dei poveri, nella fine dello sfruttamento: i padroni sarebbero sempre rimasti tali. I vecchi avevano assistito al passaggio del Friuli al Regno d'Italia e, come in molte altre regioni, i mutamenti non avevano portato nulla di buono ai contadini, ai poveri, ma piuttosto nuove, onerose e spesso incomprensibili tassazioni, oltre che la leva obbligatoria. La miseria era talvolta brutale, soprattutto nei paesini di montagna, dove non si sapeva nulla di quanto accadeva; e talvolta si presentavano i gendarmi con la cartolina rosa, che portavano via chi aveva all'incirca vent'anni (i dati anagrafici non erano così certi).

Servilio, sin da quando studiava a Udine, era venuto a conoscenza riguardo le idee più aggiornate; le sue letture, come spesso accade per i più giovani e inesperti, erano un po' disorganizzate, ma aveva capito che occorreva, con ogni mezzo, combattere contro le prepotenze, le prevaricazioni che i ricchi – industriali e possidenti – esercitavano sui lavoratori, operai e contadini. E in seguito, negli anni trascorsi in Francia, si erano consolidati in lui quegli ideali di giustizia e di rinnovamento, che si era ripromesso di non tradire, una volta rientrato in patria.

Ora, giovane padre di quattro figli, sentiva tutto il peso delle difficoltà economiche, ma in particolare avvertiva il pericolo che gravava su di sé, e sulla sua famiglia. Servilio si dichiarava socialista, come altri del paese, giovani e meno giovani. E a S.Tomaso le idee socialiste avevano attecchito, circolavano giornali come l' Avanti, e inoltre opuscoli e anche qualche libro, per i più acculturati; il buon Falcuc condivideva le idee del genero e le giudicava molto giuste, pur senza farsi illusioni; ad ogni buon conto, aveva appeso nella stalla un quadretto con l'immagine di Lenin.

Ma presto, prestissimo, la bufera del fascismo avrebbe appestato anche quei luoghi; iniziarono a farsi vedere le camionette, guidate da individui in camicia nera: qualche volta erano giovani del posto, corrotti dal fascismo. Si riconoscevano persone dello stesso paese, ragazzi che avevano frequentato insieme la scuola, la dottrina, gli amici. Ma l'amicizia non aveva più alcun valore. Quanti furono caricati sulle camionette, quanti furono presi e torturati, quanti furono gettati nella Ledra o nel Tagliamento?

Servilio preferì pertanto ritornare a Parigi, dove riprese il lavoro nei cantieri; e alla sera, insieme ai compagni e a coloro che provenivano dal suo stesso paese, o da paesi vicini, parlava di Santina, della sua bellezza, di quanto la amava, E parlava dei suoi bambini, di quanto erano belli, intelligenti e svegli, seppure così piccoli: promettevano bene, ma bisognava costruire il loro futuro lottando per la giustizia e l'uguaglianza.

Con le sue parole, in fondo cosi' semplici e ingenue, cercava di diffondere gli ideali che aveva nel cuore, e che non nascondeva; in Francia si sentiva aria di libertà, come diceva lui. Ed aveva sempre la speranza che la moglie lo raggiungesse.

Le scriveva ogni giorno, ed erano lettere da innamorato, che promettevano per lei e per i figli una vita migliore di quella attuale, e di quella che li attendeva. Ma questo non servì a convincerla. Certo, Santina rispondeva alle lettere del marito, tuttavia non scrivendole di sua mano. Si rivolgeva ad un'amica che, a suo dire, sapeva scrivere correttamente in italiano ed aveva una bella calligrafia; ma Santina, come le altre sue coetanee del paese, aveva frequentato la scuola sino alla seconda elementare, come voleva la legge di allora, e sapeva scrivere. Servilio fu molto esplicito nel farle sapere che non gradiva quelle lettere, scritte da un'altra persona: smettila, le scrisse, o attendi risposta. Questo la spaventò, e iniziò a comporle da sé, con molta incertezza , per cui non riusciva ad esprimere il sentimento d'amore per il marito, che pure era forte. Pertanto, il tono rimase identico: Santina si limitava a dargli notizie dei figli, del lavoro, dell'orto, mentre le lettere di Servilio erano intrise d'amore, e dalla sofferenza per l'assenza di lei. Arrivò al punto di supplicarla di prendere i bambini e raggiungerlo a Parigi. Ma Santina, caparbiamente, volle restare nel suo paese, nonostante amasse molto il marito, di cui sentiva fortemente la mancanza.

Dopo un po' di tempo, di fronte a tanta ostinazione, Servilio non glielo chiese più; poi le lettere si diradarono, ed assunsero un tono più freddo.

Dopo qualche mese, smise di scrivere alla moglie.



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