sabato 9 settembre 2023

Celeste. Storia di una ragazza (1^puntata)

 

Celeste (1^ puntata)


Dopo la disfatta di Caporetto, nell'ottobre del 1917, i soldati austro-tedeschi dilagarono in Friuli; la loro avanzata determinò la fuga di circa 600.000 civili che seguivano la massa enorme dei soldati in ritirata. Nelle campagne, i contadini caricavano su carri e carretti le proprie masserizie, materassi, utensili, pentole di rame e quel poco di vestiario e biancheria che si trovava nelle case dei più fortunati, e inoltre sacchi di grano e di patate e tutti s'ingegnavano a portare via il più possibile, a lasciare le case vuote di roba, a non lasciar nulla agli austriaci. Le bestie non sempre si riuscivano a salvare, e talvolta venivano abbandonate con tristezza immensa nelle stalle e nei porcili: quelle bestie che per alcuni rappresentavano anni di sacrifici e speranze. Non c'era altro da fare, se le sarebbero portate via i soldati. Anche i ricchi lasciavano le proprie ville e dimore signorili, cercando di salvare le suppellettili più belle e preziose, che ammassavano sui grandi carri solitamente usati per il fieno, su carrozze e calessi, per trasportarli più lontano possibile; li caricavano all'inverosimile, perchè non c'era tempo e la roba da mettere in salvo era molta (qualcosa si sotterrava anche negli orti e nei giardini, in attesa di tempi migliori). Così, capitava che qualche pezzo cadesse lungo la strada. I contadini più poveri, che non avevano nulla da perdere perché non possedevano nulla, non abbandonavano le proprie case, ma restavano nei paesi, in attesa paziente di quanto sarebbe accaduto. E capitava che trovassero, dopo il passaggio dei carri, qualche oggetto perduto lungo la strada o gettato giù per alleggerire carichi eccessivi; erano rami lucenti, brocche di porcellana, coperte pesanti, interi corredi ricamati e nuovi, destinati a qualche candida sposa. Quegli oggetti, che i contadini non erano abituati a maneggiare, facevano loro una strana impressione, come di apparizioni misteriose. Li raccoglievano cauti, consapevoli della loro fragilità: doveva fare un effetto particolare la lucida porcellana fiorita in quelle mani energiche e grandi, dalla pelle ispessita dal lavoro e percorsa da sottili solchi anneriti dal continuo contatto con la terra; portavano quegli oggetti nelle proprie case e per molti anni, nelle umili stanze, nelle cucine oscure, avreste potuto trovare vasellame di raffinata fattura sugli antichi tavoli di legno reso lucido dall'usura e dal tempo.

Rimanevano nei paesi, risoluti nella volontà di non abbandonare la casa, tutti coloro che rifiutavano l'infelicissima sorte dei profughi: destino da molti ritenuto assai più spaventoso che l'arrivo degli stessi austriaci. Molte donne, con il marito al fronte, e con figli piccoli, non se la sentivano di lasciare il paese e i propri cari.

Tra queste donne vi era Santina, con i suoi due figli in tenera età: non sarebbe mai partita per un destino ignoto, verso chissà quale luogo sconosciuto; non era disposta a viaggiare alla ventura, senza una meta precisa, con la prospettiva di lunghe distanze e di ulteriori spostamenti, come singar dall'Unghjarie, si diceva.

E la sorte incontrata dai profughi fuggiti dal Friuli diede ragione a Santina, e a coloro che ebbero la determinazione di restare: in molti casi, la fuga si trasformò in una deportazione in regioni lontane e del tutto estranee, dove non era neppur possibile comunicare perché il dialetto era per loro incomprensibile. A ciò si aggiungeva la miseria diffusa, e la diffidenza delle persone dei luoghi a cui furono destinati, se non la palese ostilità, come ad esempio accadde a chi si fermò nelle campagne della Toscana. Più avanti, finita la guerra, i profughi, ben lontani dall'idea di stanziarsi là dove si erano provvisoriamente fermati, ritornarono in Friuli. Molti non trovarono più le case come le avevano lasciate, ma distrutte dai due eserciti in guerra; iniziarono così, immediatamente a ricostruire o a riparare le abitazioni, a dissodare e a rendere nuovamente fertili i campi, e produttivi gli orti. Il lavoro ripartì più alacre ed ostinato di prima.


Santina e Servilio si erano sposati due anni prima che l'Italia entrasse in guerra. Erano vissuti per diversi anni lontano dal loro piccolo paese, in Austria, in Germania e in Francia. Santina era cresciuta lavorando 14 ore al giorno in una fabbrica di mattoni, a Klagenfurt, dove, all'età di 12 anni, insieme a una sorella un poco più piccola di lei, aveva seguito una giovane zia. Le operaie friulane dormivano, una accanto all'altra, due per ogni giaciglio, in una baracca accanto alla fabbrica. Le condizioni igieniche ho potuto dedurle da qualche dettaglio dei racconti di chi visse questa esperienza. Il meccanismo migratorio, in quei territori da poco conquistati dal regno d'Italia, funzionava a un dipresso così: arrivava una cartolina postale o la fotografia di qualcuno che era partito “per far fortuna” qualche tempo prima; nelle cartoline, solitamente, si scriveva “qui tutto bene, e così spero di voi”, o altre formule analoghe. Arrivavano, dunque, queste fotografie-cartoline postali, e si spargeva nel paese la notizia che nella tale fabbrica, nella tale città (non era importante quanto fosse lontana), venivano assunti lavoranti. Nelle “fornaci”, ossia fabbriche di mattoni, lavoravano molte donne e bambini. Le giovani partivano, talvolta con un parente più piccolo; il lavoro c'era davvero, ma poiché la manodopera disponibile era molta, il salario era di pochi soldi che venivano regolarmente spediti a casa, dove quasi sempre c'erano bambini piccoli, che non potevano ancora lavorare nemmeno nell'orto o stare dietro alle bestie. La famiglia di Santina era numerosa: nove fratelli, due dei quali erano morti piccoli, mentre alcuni se ne sarebbero andati con la Grande guerra. La mamma di Santina si chiamava Mariute, e il papà Giovanni, ma tutti lo chiamavano “Falcuc” perché “Falc” era stato il soprannome di suo padre (il cui nome era Zef) uomo dallo sguardo acuto e indagatore. Falcuc aveva lavorato in Austria e poi in Germania, dall'età di 8 anni sino ai 29-30, seguendo uno zio poco più grande di lui. Una bella foto, trovata decenni dopo in fondo al cassetto di una credenza relegata in un angolo oscuro della casa (erano venute di moda le cucine all'americana, tutte di formica, e ci si vergognava delle vecchie credenze in legno) lo rappresenta insieme ad un gruppo di amici, seduti al tavolo di una birreria; ha dei baffi importanti e un'ampia fronte lasciata libera dal cappello un po' all'indietro. Porta un bel bastone da passeggio, probabile oggetto facente parte dell'armamentario dei fotografi di allora che costruivano, per ogni foto, una vera e propria scenografia con piante, poltroncine, tappeti, fondali dipinti. Sul tavolo vi sono alcuni boccali pieni. Le espressioni, le fisionomie, gli sguardi sono tra loro diversissimi; tuttavia, questi uomini hanno in comune un portamento fiero e nobile. In piedi, dietro al Falcuc, in una posa più ricercata, vi è il giovane Agostino, con un cappello di foggia cittadina, il braccio sul fianco e un'espressione alquanto altera sul viso dai lineamenti fini: poteva permetterselo, poiché è visibilmente il più bello e il più giovane del gruppo, ed apparteneva ad una ricca famiglia decaduta. Quella foto fu inviata, come cartolina postale, ad una famiglia di San Tomaso.

Tornato in patria, Falcuc lavorava nei campi; partiva molto presto, al mattino, e ritornava al tramonto; a metà mattinata, la nipotina Celeste gli portava il pranzo (se era a scuola, salutava la maestra e se ne andava col suo cestello). Falcuc doveva lavorare molto, per riuscire a non far mancare nulla alla sua famiglia: sulla tavola c'erano il burro, l'olio d'oliva, spesso persino la carne, con cui la moglie preparava dell'ottimo brodo. La sera, poi, lavorava in qualche orto vicino, per conto di chi gli affidava questo incarico; era molto bravo anche a intagliare il legno, con cui realizzava mestoli e cucchiai per un venditore che girava di paese in paese con un carretto pieno di oggetti d'ogni sorta, compresi grembiuli, fazzoletti, scialli.

L’orto di casa, lo coltivava la moglie, che si occupava anche delle galline. Tuttavia tanto lavoro non bastava, e così Santina, insieme a una sorella e a una giovane zia, erano partite per la Germania, così avrebbero mandato un po' di soldi a casa, dove c'erano ancora i fratellini.

Il giovane Agostino, che abbiamo incontrato nella foto di Klagenfurt, era il fratello di Servilio, che avrebbe sposato Santina. Servilio era un ragazzo bello e raffinato nell'aspetto e nei modi; lo sguardo altero, il viso dai tratti fini, i baffi sottili e l'abbigliamento di una certa ricercatezza erano segni d'appartenenza ad una famiglia di signori. In realtà, dopo la morte del nonno di Agostino e Servilio, i beni della famiglia (dei terreni e una villa, forse una grande cascina) erano stati venduti e divisi. Luigi, il padre di Servilio, rimase presto vedovo, con i suoi due bambini; la moglie, di nome Celestina, era morta a causa di una febbre puerperale, dopo aver dato alla luce una femmina prematura, che non sopravvisse. Luigi sposò in seconde nozze una vedova, madre di due bambini; era una levatrice, tenuta in gran conto e molto stimata anche nei paesi vicini. Quando, pochi anni dopo, anche il padre di Servilio morì in seguito a una polmonite, la donna, per mantenere decorosamente i quattro ragazzi, che avrebbe voluto far studiare, intensificò il proprio lavoro di levatrice, trovò il modo di risparmiare occupandosi ella stessa della casa, e poi anche del campo e degli animali; ma tutto ciò non fu sufficiente, e dopo pochi anni i figli più grandi dovettero emigrare in Germania. Le restava Servilio, sul quale aveva riposto le proprie ambizioni: sperava che, studiando, avrebbe potuto raggiungere una posizione ragguardevole. Il ragazzo studiò per qualche anno a Udine, ma i sacrifici della matrigna non bastavano a coprire le spese, e dovette pertanto ritornare a San Tomaso, dove il comune gli affidò l'incarico di segretario. In paese, Servilio era considerato un intellettuale, e molti lo incaricavano di scrivere lettere ai familiari lontani, sia perché molti non erano in grado di farlo, sia perché aveva una bella ed elegante grafia: le persone si incantavano nell'osservarlo, mentre tracciava con un fine pennino quei caratteri che sembravano danzare come sottili riccioli d'inchiostro.

Fu verso i vent'anni che Servilio si invaghì di Santina, che era tornata dalla Germania, ed ora aiutava la madre a confezionare gli stafès, quelle semplici scarpe di feltro nero, utilizzate quotidianamente da tutti, nei paesi e nelle campagne. Santina aveva gli occhi neri, che erano una rarità, e una bella treccia di un colore castano molto scuro, per lo più nascosta sotto il fazzoletto, che le donne portavano, fin da giovanissime, annodato dietro la nuca e calato sulla fronte. I colori di Santina erano, dunque, quanto di più bello si potesse immaginare in quei paesi; la ragazza era considerata di grande avvenenza, anche per la statura e il bel portamento. Servilio si sentiva invidiato dai giovani del paese; la sua fidanzata era molto corteggiata, ma aveva rifiutato tutti i pretendenti, tranne lui.

Anche Servilio era considerato un bellissimo giovane, e molte erano le ragazze che avrebbero voluto sposarlo, ma egli non vedeva che Santina.

I genitori della giovane, però, non erano contenti. E, mentre Falcuc evitava di esprimere la propria opinione, com'era il suo solito, la mamma Mariute non temeva di manifestare alla figlia quanto fosse preoccupata per il suo futuro: Servilio apparteneva a una famiglia di signori, che, sebbene caduti in miseria, cercavano di mantenere le abitudini a cui erano affezionati, che li distinguevano dagli altri: non vedeva, forse, come si vestiva? E quante ragazze lo corteggiavano? Avrebbe mai lavorato i campi, quel giovane? Questo, a un di presso, era ciò che la mamma Mariute cercava di far capire alla figlia la quale, innamorata del bellissimo Servilio, non voleva sentire ragioni, e ogni sera, dopo il lungo lavoro degli stafès, riprendeva a cucire il proprio corredo. Una fotografia del tempo la ritrae in un interno – uno studio fotografico con modesta scenografia- insieme a due amiche, o forse sue compagne di lavoro, probabilmente sue coetanee: Santina ha i capelli raccolti, ma con morbide onde che circondano il suo viso ovale; lo sguardo appare dolce ma attento, le labbra sono delicate, ma piene. Una camicetta a righe sottili, guarnita con passamaneria ricamata, la ricopre sino al collo; indossa una gonna che le arriva alle caviglie, ma la stoffa ha una fantasia vivace e chiara. Con evidente imbarazzo, tiene in mano due rose bianche, ma rivolte verso il basso, quasi a nasconderle, come chi non è abituato a portare fiori. Una delle ragazze sembra sfogliare una rivista di moda aperta sopra un tavolino, ma il suo sguardo è diretto verso l'obbiettivo del fotografo. Quella foto è l'unica immagine che ritrae Santina da ragazza: una foto era un lusso, per una giovane della sua condizione, ma lei la volle per donarla a Servilio.


Santina aveva carattere, si dimostrava ostinata nelle proprie decisioni, e così rimase per tutta la sua lunga vita. Non diede retta alla madre, non fece caso alla mite e silenziosa perplessità del padre, e sposò il giovane tanto amato.

Una fotografia-cartolina postale color seppia, di cartoncino abbastanza spesso, ritrae la coppia, che fa una gran figura; Santina è felice: i suoi occhi parlano della sua gioia, ed anche del suo orgoglio, di essere sposa: i capelli sono raccolti molto morbidamente, quasi a esaltarne l'abbondanza, in un'acconciatura elaborata. E' un'occasione speciale, ed anche l'abito è bello: la lavorazione è accurata, con molti dettagli. Lo sposo, impeccabilmente vestito di scuro, con un alto colletto inamidato secondo la moda di allora, ha un'espressione altera e distaccata; ha la mano poggiata su un fianco, e non guarda nella direzione dell'obbiettivo, né della sua sposa, ma è come intento ad osservare qualcosa di esterno alla fotografia. Il viso è molto bello: di un ovale perfetto, il naso sottile e i baffi solo un poco arricciati.

Dopo le nozze, Servilio continuò a svolgere il suo lavoro di segretario. Aveva preso in affitto una casa con una grande cucina, una grande camera da letto, e un bell'orto. In precedenza, quell'antica casa era stata una locanda, e nella grande stanza al pianterreno si ballava, la domenica pomeriggio.

Santina era orgogliosa di questa casa, dove lei si sentiva una signora; nella cucina al piano terra c'era il fogolar, un tavolo di legno antico, ed una panca tra il muro e il tavolo. Sembrava una panca da chiesa, era scura e lucida per l'usura. C'erano pentole di rame appese al muro, come allora si usava; Santina pensava che le avrebbe lucidate, come nelle case dei signori. il soffitto era un po' affumicato, ma il pavimento della cucina era composto da belle lastre di pietra, che non tutti potevano permettersi. Al piano di sopra – collegato al pianterreno tramite una scala di pietra, dagli alti gradini e dal passamano consunto – c'era la camera degli sposi. Era una grande stanza, dove i muri erano stati imbiancati con la calce di recente; il letto era ampio, ed aveva quella forma “a culla” tipicamente ottocentesca, ormai introvabile, con due alti materassi di lana. C'era un attaccapanni appeso ad un muro (un'asticciola con semplici chiodi), ed un baule. Ma c'era anche una cassettiera, arredo non comune nelle campagne, e appoggiato sulla cassettiera, uno specchio basculante; sotto lo specchio un piccolo cassetto, forse destinato a custodire i gioielli della sposa. Il pavimento era composto di assi di legno chiaro e lucido: una rarità, in un piccolo paese. Per di più, la grande e bella camera si affacciava su una poggiolata in legno, con la ringhiera lavorata. Santina era molto felice, da sposa novella, e in qualche modo gustava l'invidia sottile delle sue coetanee del paese. Tuttavia lavorava, coltivando le verdure e occupandosi delle galline; avevano comprato anche un maiale, che se ne stava in una casetta di pietra a fianco al gabinetto, nell'orto.

Ma, con l'arrivo del primo figlio, nato in una delle radiose giornate di maggio del 1915, Servilio dovette decidere il proprio futuro, e quello della sua famiglia. Così, risolse di partire per la Francia, dove il lavoro c'era perché, nonostante la guerra, a Parigi si continuava a costruire, a rendere più moderni i quartieri e le strade. Aveva chiesto alla Santina di partire con lui: ebbene, sì, di emigrare; gli piangeva il cuore allontanarsi da lei, era veramente innamorato! Ma la moglie aveva rifiutato perché non voleva lasciare il suo primogenito ad una balia, né tanto meno avrebbe potuto portarlo con loro. Tanta ostinazione a restare in paese, e a non volerlo seguire, finì con il creare dell'ostilità, e anche qualche lite. Servilio partì, dunque, insieme al fratello; qualche settimana dopo, ricevette dalla moglie una lettera, con cui gli annunziava che sarebbe diventato di nuovo papà.


Celeste nacque nella stagione della vendemmia, anche se in quell’anno, il 1916, mancava il consueto entusiasmo per la raccolta dell'uva, e si cercava piuttosto di portare avanti il necessario per sopravvivere: i prodotti dell'orto, le galline e qualche mucca per i più fortunati; un maiale, per chi poteva permetterselo. Nei paesi, come durante tutte le guerre, restavano solo le donne, i vecchi e i bambini; gli uomini erano al fronte o erano emigrati.

Nel 1917, dopo Caporetto, gli austriaci si stanziarono per un periodo anche a S.Tomaso. Dopo anni ed anni, Santina avrebbe parlato di quei soldati come di presenze innocue; alcuni ufficiali si erano stabiliti nella casa di Santina e Servilio, ma avevano occupato una sola stanza senza dare alcun fastidio, anzi, lasciando poi una quantità di scatolame, ed altri viveri. Gli Austriaci erano fratelli, da secoli; questo legame, questa appartenenza non era scomparsa con la conquista da parte del regno d'Italia. Uno di questi ospiti si affezionò particolarmente a Celeste, che nell'estate del 1917 aveva un anno; spesso chiedeva a Santina se poteva tenerla per un po'. Così, finché gli austriaci rimasero in paese, si poteva incontrare l'austriaco con la bambina in braccio: se la portava in giro orgogliosamente, e per questo i suoi compagni lo chiamavano scherzosamente Celeste. Quante volte, diventata adulta, Celeste ripensò a questo giovane, che forse, a casa, aveva lasciato una bambina piccola, simile a lei per il colore dei capelli e degli occhi; probabilmente gliela ricordava. Si domandava anche quale fosse stato il destino di quel giovane, da lì a poco. Celeste conservò nel cuore, per tutta la vita, questo ricordo, e lo trasmise: un ricordo che rimane, dopo oltre un secolo, dolce e nostalgico.


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