venerdì 4 agosto 2023

PASCOLI IN CUCINA 2. IL RISOTTO

 PASCOLI IN CUCINA 2

Ricetta in terzine con cui il Poeta ci presenta il procedimento per il risotto romagnolesco, secondo il metodo della sorella Mariù; è stata composta nel 1905, in risposta alla ricetta del risotto alla milanese inviatagli dall'amico Augusto Guido Bianchi. 
Ecco la ricetta pascoliana:

Amico, ho letto il tuo risotto in …ai! 
E’ buono assai, soltanto un po’ futuro, 
con quei tuoi “tu farai, vorrai, saprai”!
Questo, del mio paese, è più sicuro 
perché presente. Ella ha tritato un poco 
di cipolline in un tegame puro.
V’ha messo il burro del color di croco 
e zafferano (è di Milano!): a lungo 
quindi ha lasciato il suo cibrèo sul fuoco.
Tu mi dirai:”Burro e cipolle?”. Aggiungo 
che v’era ancora qualche fegatino
di pollo, qualche buzzo, qualche fungo.
Che buon odor veniva dal camino! 
Io già sentiva un poco di ristoro, 
dopo il mio greco, dopo il mio latino!
Poi v’ha spremuto qualche pomodoro; 
ha lasciato covare chiotto chiotto 
in fin c’ha preso un chiaro color d’oro.
Soltanto allora ella v’ha dentro cotto 
Il riso crudo, come dici tu. 
Già suona mezzogiorno…ecco il risotto 
romagnolesco che mi fa Mariù.
Pascoli sembra sorridere di fronte al futuro, ma anche all'infinito con funzione di imperativo,  utilizzato dall'amico nella ricetta da lui presentata al poeta, tempo che suona ironicamente solenne e distaccato in un contesto scherzoso, ma che in passato si trovava di frequente nei ricettari, come nelle leggi dell'antica Roma.
Il poeta è felice di ristorarsi con un manicaretto domenicale, dopo le fatiche profuse nel comporre in greco e latino (quelle composizioni che gli varranno ben 12 riconoscimenti negli annuali agoni poetici in lingua latina tenuti ad Amsterdam).
Non manca la duttilità linguistica pascoliana che spesso risiede nei tecnicismi, o nel trascorrere da vocaboli della quotidianità (fegatino...buzzo...fungo, etc.), ad altri che, all'opposto, suonano arcaici e peregrini, come nel caso della parola cibreo, che indica un intingolo di antiche origini fiorentine, preparato con ingredienti semplici o addirittura poveri ma molto nutrienti, e molto apprezzato dall'intenditrice  Maria De Medici.
Infine, quel metaforico covare dell'intingolo che sobbolle chiotto chiotto nel tegame di terracotta, ricorda un nugolo di uccellini che dormono quieti nel loro nido, con le alucce abbassate, ma è anche un riferimento alla cucina calda e raccolta, in cui il poeta e la sorella - la famiglia ricostruita nella casetta di Castelvecchio -  si riuniscono attorno al desco domenicale.

Insieme all'amico Bianchi, Pascoli aveva gustato il riso alla milanese, con lo zafferano; ed ecco la ricetta inviata da Bianchi, che si cimentò nella poesia:

Occorre di carbone un vivo fuoco;

la casseruola; cento grammi buoni

di burro e di cipolla qualche poco.

Quando il burro rosseggia, allor vi poni

il riso crudo; quanto ne vorrei

e mentre tosta l’aglio e scomponi.

Del brodo occorre poi: ma caldo assai;

messine un po’ per volta, che bollire deve continuo, né asciugarsi mai.

Nel tutto, sulla fine, diluire

di zafferano un poco tu farai

perché in giallo lo abbia a colorire.

Il brodo tu graduare ben saprai, perché denso sia il riso, allor che è cotto.

Di grattugiato ce ne vuole assai.

Così avrai di Milan pronto il risotto.

N.B.  Sembra superfluo aggiungere che Augusto Guido Bianchi non era né un gastronomo né un poeta, ma si occupava, in quanto giornalista e studioso, di casi giudiziari e della criminalità legata alle malattie mentali: si rifaceva a Lombroso, ed esaminò vari casi. Si occupò anche della disastrosa situazione dei manicomi italiani, deplorando l'affollamento che impediva, insieme ad altre cause, di esperire tentativi per la cura dei malati, che venivano abbandonati a se stessi o sottoposti a violenze. Visse tra il 18767 e il 1951: una lunga vita che gli permise di seguire passo passo l'evolversi degli studi sulla psichiatria.

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