sabato 12 agosto 2023

Rue vieille du Temple: con piacere ho visto che esiste e che non dovrebbe aver subito grossi mutamenti dai tempi in cui Zola fa percorrere questa strada dal protagonista de "L'oeuvre", il giovane artista bohemien Claude Lantier. Pittore alla ricerca del successo attraverso la faticosa e lunghissima realizzazione dell'opera perfetta, porta con se' l'eredità caratteriale di genitori e avi; ciò gli determina momenti di rabbia violenta e plateale, seguiti da repentini mutamenti di umore. In lui si alternano ore di produzione senza sosta, a lunghi momenti in cui si sente un fallito, medita sull'impossibilità di dipingere l'opera straordinaria che occupa la sua mente. Sfoga il senso di frustrazione esternando il proprio sdegno nei confronti del mondo borghese: della morale, dei valori, delle idee e soprattutto dell'arte gradita alla buona borghesia parigina: arte addomesticata dal potere e ad esso asservita; arte innocente -troppo innocente- mansueta ed ubbidiente. È la produzione accademica: quella contro la quale Claude si scaglia furioso, ma è una lotta impari. Claude è portatore del nuovo, dell'anti-accademismo, dell'en plein air, di soggetti che faranno tremare le vene e i polsi a chi apprezzava la tradizione. Ed è proprio della tradizione che Claude si sbarazza, con le sue pennellate energiche e un po' folli, con la figura di donna, nuda su un prato, presso la quale siede (di spalle) un signore elegantemente vestito, con giacca di velluto nero. Vi viene in mente qualcosa, penso. Tornando agli aspetti patologici del personaggio, ricordiamoci che in lui la violenza è sempre sul punto di scoppiare, proprio come nel fratello Jacques (uno dei personaggi de La bestia umana) l'eredità familiare rischiava di esplodere nel momento in cui si creava una qualche intimità con l'altro sesso. E infatti, la furia (è lui la bestia umana?o è solo una delle bestie umane del romanzo?) infine divampa, come lui temeva. E anche ne "L'oeuvre" il retaggio malato dei Maquart non manca di mostrarsi, con modalità inattese.

Pascoli: L'aquilone, ovvero la fortuna di rimanere per sempre piccoli 

Meravigliosa poesia che leggiamo nei Primi Poemetti, L'aquilone  si soleva far studiare diligentemente a memoria; nonostante il mio disaccordo nei confronti dell'imposizione dello studio mnemonico dei testi poetici, devo riconoscere che molte persone della mia età, o anche più giovani o più grandi, si compiacciono molto nel ricordarla e nel recitare i primi versi. Io la propongo sotto un aspetto che mi interessa particolarmente: quello dei giochi. I bimbi, tra cui il nostro poeta, al risveglio nei giorni in cui non c'era lezione, potevano, liberamente, giocare; se faceva bello, si recavano nei prati circostanti, forse guidati da un maestro, forse non seguiti: la loro felicità si libera un po' selvaggia, tra siepi ancora rosseggianti di bacche (era ottobre, o comunque era autunno, e non faceva ancora freddo: solo un bel vento e il cielo turchino). Immaginiamo i bimbi che saltellano tra i fiori, portando un aquilone. Quando finalmente un soffio di vento sembra strappare da una piccola mano il filo, ecco un urlo di gioia; stenta un po' a innalzarsi, quel gioco di fragile carta colorata, ma poi si leva in alto. Il bimbo dell'aquilone non avrà fortuna, e la mammalo piangerà tanto, dopo averlo composto per l'ultima volta nel suo lettino ed aver pettinato piano, per non fargli male, i capelli biondi. Pascoli, adulto, ricordando il giorno libero e lieto dell'aquilone e il piccolo compagno di collegio, ritiene fortunata la morte, se in giovanissima età, quando ancora l'interesse è concentrato - in questo caso - sul balocco che si stringe al cuore, prezioso. 

Meglio venirci ansante, roseo, molle

di sudor, come dopo una gioconda

corsa di gara per salire un colle!

Meglio venirci con la testa bionda (...) 

senza aver visto cadere altro che gli aquiloni, piuttosto che dopo l'immersione nella sofferenza adulta, dopo aver visto non solo morire i propri cari, ma anche la progressiva caduta dell'umanità tutta nel male, osservata con dolore dallo stesso cielo, colorato di aquiloni in volo in quell'occasione, ma piangente lacrime di stelle - anch'esse un pulviscolo - di fronte alla cattiveria, alla violenza (vedi, ad esempio, X agosto, Il bolide, Il ciocco, etc.  Anche l'aquilone è una cometa, una stella cadente - in fondo - che non fa male.

L'inconsapevolezza è la condizione a cui vorrebbe abbandonarsi il poeta; quel pettine che la madre del piccolo morto passa delicatamente sui suoi capelli, Pascoli avrebbe voluto sentirlo su di sé fanciullo, tra le carezze della propria madre.

Infine, vorrei che notaste un'immagine di splendida, trasparente libertà: Urbino ventoso... 

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