sabato 12 agosto 2023

TRENI 2. Carducci e il treno-mostro



Treni 2. Carducci e l'empio mostro: un inconsueto addio

(su un mezzo all'avanguardia)

     In una mattina caliginosa, alla stazione di Bologna, Giosué Carducci accompagna con le proprie riflessioni la partenza della giovane amante-studentessa Lidia; la pioggia scroscia, scivola rumorosa dai cornicioni delle pensiline e dai finestrini del treno. Qualche sparuto albero, dai rami stillanti avvolti in una sorta di nebbia opaca, pare un fantasma, agli occhi del poeta. Senz'altro contrariato per quel viaggio, per l'allontanarsi della donna amata (la stessa a cui ha da poco donato un bel cavallo: regalo impegnativo e ingombrante, che creò qualche problema alla fanciulla) coglie una meravigliosa occasione per trasfigurare quel luogo, e soprattutto quel veicolo che rappresenta ancora una novità, in uno scenario dove ogni oggetto e ogni azione si rivestono di solennità epica.

Il treno in movimento è un inseguirsi di fanali, che sbadigliano la loro luce lattiginosa tra la cortina di pioggia e il fumo della locomotiva. La presenza di tante persone gli suscita non più che un filo di curiosità (dove andranno? quale dolore muove i loro passi?), subito spenta dall'apparire della ragazza. Costei si limita a porgere il biglietto al controllore, che dà un taglio netto, secco, che riapre al poeta la ferita del distacco, e il fluire di condivisi ricordi:                                                    

(...) Tu pur pensosa, Lidia, la tessera

al secco taglio dài de la guardia,

        e al tempo incalzante i begli anni

        dài, gl’istanti gioiti e i ricordi.(...)

Attorno a loro, tutto è oscuro e luttuoso: come le guardie stesse, lugubri comparse, quasi fantasmi con lampade dalla luce scialba, le mazze di ferro; come in un antro infernale, risuonano rumori metallici e cupi: lo stridio dei freni risuona come una campana a morto:

                       (...)   ed i ferrei20

        freni tentati rendono un lugubre

        rintócco lungo: di fondo a l’anima

un’eco di tedio risponde

doloroso, che spasimo pare.


E così pure gli schianti delle porte sbattute suonano oltraggiose al poeta, mentre il treno sembra prendere vita, risvegliandosi con grossolani movimenti di mostro:
 
Già il mostro, conscio di sua metallica

anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei

occhi sbarra (...)

Gli occhi del treno sono di brace: tutto converge, ora, su questa figura/immagine/creatura/golem, che         gli rapisce la donna, la cui presenza si perde in un saluto che si allontana: 

Va l’empio mostro; con traino orribile

        sbattendo l’ale gli amor miei portasi.

Ahi, la bianca faccia e ’l bel velo

        salutando scompar ne la tenebra.

Rimane solo il ricordo, fatto dei tratti gentili della fanciulla: colori rosei, trasparenti e giovani         come il sole di giugno, quando gli di lei occhi gli arrisero. Tristemente, il poeta ritorna sui suoi passi: si sente barcollare, come fosse ebbro, come se tutto sfumasse in una caligine, in un oblio che vorrebbe eterno, un oblio che potesse sopire i suoi sensi - lui dice - per sempre:

(...) io voglio io voglio adagiarmi
        
in un tedio che duri infinito.

Ma è solo un momento: noi sappiamo che l'energico, vitale Carducci è uno spirito indomito, a cui il tedio, soprattutto se infinito, non si addice per nulla!








60

Nessun commento:

Posta un commento

Una bella classetta (racconto)

  Una bella classetta tutta di femmine Dai tempi dell'asilo sino al termine della scuola media, Agata dovette frequentare una scuola di...